Festival Internazionale del Cinema di Roma 2010
Una piccola città irlandese. Casette basse in mattoni rossi, prato rasato e un po’ dimesso, l’immancabile pioggia. Ai margini, ma nemmeno troppo celato, l’altrettanto immancabile ciarpame che si accompagna a una periferia degna di questo nome ai tempi della crisi economica: canali di scolo maleodoranti, immondizia, cancelli arrugginiti, case in vendita in cerca di improbabili compratori. Su questo scenario da manuale, perfetto per un romanzo di McEwan, si agitano e si intrecciano vite. Si agitano? Oddio… Diciamo che del movimento c’è, ma solo perché un film è un film e non si chiamerebbe tale se non scorressero 24 fotogrammi al secondo. Quella che non si muove affatto e rimane bloccata, prevedibile e a tratti stucchevole è la struttura narrativa: del disincanto lucido e cinico di Ian qui c’è solo stereotipata oleografia. Un uomo (John Lynch) è a terra, la gamba piegata in modo innaturale, il posto è buio, sporco, fetido; non riesce ad alzarsi, prova ma è inutile. Chi è? Perché è lì? È ubriaco? Ha subito un’aggressione? È l’unico sopravvissuto a un’esplosione nucleare? Non lo sappiamo. Capiamo però dalle scene successive che quello non è che l’epilogo di una storia che come un lungo flashback vedremo di lì in avanti.
Nella realtà di storie ce ne sono diverse. Una madre di due figli ossessionata dai gatti e dai cani che gli lordano il giardino; una veterinaria dallo sguardo triste invischiata in una relazione extra-coniugale; un’anziana signora che si ostina a dar da mangiare a un gatto ormai in rigor mortis; un eroinomane abulico; una giovane prostituta-madre; una famiglia lui-lei-bimba-cagnolino apparentemente felice visto che il nostro lui non solo non è il padre naturale della bambina ma è anche il fedifrago che tradisce la compagna con la veterinaria. Le vite di questi personaggi inevitabilmente si intrecceranno.
Lo schema, insomma, è quello solito: più trame si intersecano per offrire un punto di vista generale e sfaccettato sull’amore, l’amicizia, la solitudine, il disattamento o qualsiasi altro grande tema possa venire in mente. Niente da eccepire, non è certo sull’originalità di una struttura che si valuta un film o un romanzo, ma nel modo in cui questa struttura viene sviluppata sì.
E Five Day Shelter è noioso, prevedibile fino all’irritazione, finto fino all’artificialità. Non c’è un’invenzione, un guizzo, un rovesciamento del già visto e sentito mille volte. Si arriva addirittura a sfiorare la banalità quando ad esempio la veterinaria e la signora del gatto morto si trovano nello stesso luogo, sulla stessa panchina e nella stessa condizione di aver scelto di dare una svolta alla propria non-vita: la prima decide di tenersi e crescere da sola il figlio concepito con l’amante, la seconda realizza che il gatto è irrimediabilmente morto. Che mancava a questo quadretto per suggellarne il momento topico? Un bell’acquazzone che si porta via le scorie del passato. I dialoghi sono quasi inesistenti, frammentati, scarni; ma in un film con queste velleità ci sta pure.
Tuttavia risultano paradossalmente ridondanti per le troppe ripetizioni. Ger Leonard sembra dimenticare che scrivere poco è incomparabilmente più difficile che scrivere tanto; forse prima del prossimo film farebbe bene a andare a leggere i racconti di Raymond Carver.
Cosa resta? Ben poco, purtroppo. La fotografia, ad esempio. È sontuosa, quasi caravaggesca. E bisogna anche dire che comunque il giovane regista è bravo con la macchina da presa, nelle inquadrature, nei tagli. Ma il problema è proprio questo: il film altro non è che una collezione di belle immagini dove spesso ci si masturba con la tecnica fino all’insipienza. Indulgere su dettagli fotografici in modo così ossessivo denuncia, se mai ce ne fosse stato bisogno, l’inconsistenza della storia. È vero che uno dei paradigmi della scrittura cinematografica è Show, don’t say! ma qualcosa per immagini devi pur dire. Per certi versi Five Day Shelter è un commercial di un’ora e mezza. Sarebbero bastati 30 secondi. Ok, Ger, se mi capitasse domani di dover girare un film pubblicitario visivamente emotivo probabilmente ti terrei in considerazione, ma il cinema è un’altra cosa.
Five Day Shelter, Irlanda 2010
83′ colore, lingua originale inglese
regia Ger Leonard
sceneggiatura Ger Leonard
fotografia Tim Fleming
montaggio Frank Reid
scenografia Annabel Konig
costumi Lara Campbell
musica Alex Leonard
produttore Liam O’Neill
co-produttore Villi Ragnarsson
produzione Paradox Pictures (Irlanda), RedRay Films (Irlanda del Nord)
co-produzione Rendez-Vous Pictures (Francia)
cast John Lynch, Kate Dickie, Ger Ryan, Antonia Campbell-Hughes, Michael FitzGerald, Ines Catalano, Charles De Bromhead