Cuba. Le magie della Isla Grande
Cos’è che spinge ogni anno migliaia di persone a venire qui, a Cuba, nell’isola che sarà pure il simbolo dei Caraibi ma che nel tempo ha visto la propria patina sbiadire a favore di altre destinazioni più agguerrite e “confortevoli”? Qual è la molla che scatta non appena si fa cenno a La Habana? Che tipo di vertigine coglie quando ci si immagina a passeggiare sul Malecón cullati dai ritmi del son e della salsa? Forse non esiste una vera e propria risposta, e di sicuro se c’è non la si può esprimere a parole: “Cuba es vida”, direbbe semplicemente un vecchio cubano dalla pelle cotta dal sole, e magari sorriderebbe anche un po’ per l’assurdità di una domanda così. Certo, Cuba non è solo mare e La Habana, ma si può iniziare anche da qui. A La Habana si respira un’atmosfera strana. Film e romanzi l’hanno descritta così bene che uno potrebbe pensare di conoscerla già come le sue tasche, eppure quando si passeggia nelle stradine coloniali della sua parte vieja o ci si perde nelle proprie fantasie guardando le onde maestose che si infrangono sul lungomare, non c’è nulla che risulti già visto o scontato. I fasti degli anni cinquanta si mescolano con le icone della Revolución: El Che che si allaccia stretto a una cantante di son dal tubino cosparso di lustrini, una Dodge color confetto sullo sfondo di un manifesto che inneggia al Lider Maximo, il sorriso insolente di un fanciullo dai denti di perla con i conti economici che non tornano mai. Che si fa allora? Quello che diceva mr. Hemingway: si va a pescare, o a bere. Il dilemma riguarda solo il contenuto del tumbler alto: Cuba Libre o Mojito? Daiquiri, suggerirebbe il buon Ernest, e prego, rigorosamente non nel tumbler. Se La Habana è il cuore pulsante di Cuba, Santiago ne è l’anima. Non a caso è da qui che sono partiti come vento impetuoso i barbudos di Cienfuegos e Castro, è qui che si trova El Moro, la fortezza spagnola meglio conservata e più stupefacente di Cuba, è qui che è nato il son, la musica più vera e affine all’indole e ai sentimenti di un popolo tanto amante della vita. Santiago de Cuba, per grandezza, è una città seconda solo a La Habana e da sola meriterebbe per intero il viaggio: è nelle sue corde che vibra quella sottile malinconia che spinge chi è già stato a Cuba a tornarvi di nuovo. Oltre alla zona coloniale, bella e suggestiva è sicuramente la passeggiata lungo costa che arriva fino a Marea del Portillo. Discorso a parte meriterebbe Trinidad, patrimonio dell’UNESCO: una sorta di sogno cristallizzato in un’atmosfera fuori dal tempo. Molte sono le spiagge di Cuba dove non bisogna mancare di andare. Fra le più belle ci sono Playa Gibacoa nei pressi di La Habana, Maria La Gorda a Pinar de Rio, la stupefacente barriera corallina di Guardalavaca, Playa de Ancon e quelle da sogno nelle isolette di Cayo Largo e Isla de la Juventud. Qui è d’obbligo praticare lo snorkeling o partecipare a escursioni subacquee. Per i patiti delle avventure romantiche c’è anche la possibilità di cimentarsi con la pesca d’altura: i marlin sono sempre prede che danno filo da torcere anche ai più motivati e assidui lettori de “Il vecchio e il mare”.
Segnali di fumo
Si narra che il primo spagnolo a tornare in patria dopo il viaggio di Colombo e che fu visto sbuffar fumo da bastoncini accesi tenuti fra le labbra non abbia fatto una gran bella fine. Del resto nei secoli il tabacco di vittime ne ha mietute parecchie, ma questa ci sta un po’ più simpatica delle altre. In fondo lo sconosciuto marinario di messer Cristoforo è stato un pioniere incompreso. I Caribe, la popolazione della Cuba precolombiana, di questa particolare pianta sapevano tutto. Loro purtroppo non ci sono più ma qualcosa è rimasto: il sigaro cubano. Il sigaro cubano è unico, puros li chiamano semplicemente nell’isola, e nonostante si sia cercato di produrlo anche altrove, lui, il sigaro, non si lascia convincere: fuori da Cuba non esiste. Il procedimento è rimasto lo stesso di sempre, magari con qualche innovazione tecnologica, ma nei sigari più pregiati sono ancora e soltanto delle mani esperte a valutare qual è la giusta foglia per la fascia e quelle adatte per il ripieno. Due sole accortezze. Un sigaro cubano vive, ha bisogno di un certo grado di umidità e si accende con rispetto: mai aspirare, bisogna avvicinarlo alla fiamma senza avere fretta. E in ultimo concedetegli una fine onorevole: lasciate che si consumi in solitudine, un sigaro cubano schiacciato nel portacenere è quasi un insulto.
Tutto in un punto. Fra salti temporali e materia oscura, come l’astrofisica moderna cerca di rispondere a una vecchia domanda: da dove veniamo?
“Tutto in punto” è un divertente racconto di Italo Calvino ispirato alla teoria del Big Bang. Perché uno scrittore noto per la sua sfrenata fantasia ha guardato alla cosmologia per inventare strane storie? Perché contrariamente a quel che si pensa, per formulare alcune delle teorie fisiche più recenti bisogna avere una grande immaginazione. Del resto il gioco, come insegnano i bambini, è cosa estremamente seria anche quando, giocando, si cerca di rispondere alle domande che ci facciamo da una vita: Chi siamo? Dove andiamo? Da dove veniamo? Gli astrofisici ci stanno provando e, per cominciare, bisogna togliersi dalla testa l’immagine di un intirizzito signore che, nelle buie notti senza luna, passa ore e ore incollato all’oculare di un telescopio. Oggi la ricerca ha uno spettro più ampio di quello visibile e riguarda l’intero complesso delle radiazioni elettromagnetiche. Le scoperte più interessanti, infatti, sono arrivate quando ci si è messi a interrogare il cielo con strumenti sensibili alle onde radio, ai raggi X, agli infrarossi e ai raggi gamma. S’è visto così che le galassie si allontanano fra di loro (il Red Shift, o spostamento verso il rosso, di Hubble) e che l’universo è un posto molto rumoroso per via della Radiazione Cosmica di Fondo. Ma le sorprese più incredibili sono arrivate quando ci si è accorti che c’erano delle interferenze che potevano essere spiegate solo con la “presenza” di altri corpi o materia. Che diavolo era questa roba che esisteva ma che non poteva essere osservata perché non emetteva alcun tipo di radiazione? Si è cominciato a parlare di Buchi Neri, vortici dove la gravità è talmente forte che deforma lo spazio/tempo e la sua geometria in modo da risucchiare ogni cosa. Lì non si sa nulla di quel che accade e nemmeno se ha senso il tempo come lo consideriamo noi. Certo, da Minkowski e Einstein in poi, il tempo ormai può fare quel che vuole, anche andare in un’altra direzione se gli va: il divenire è solo apparenza, come diceva già Parmenide. I Buchi Neri, però, sono solo la punta dell’iceberg. Questi strani oggetti fanno parte di una famiglia molto più numerosa: la Materia Oscura. Della Materia Oscura sappiamo solo che esiste, che non è osservabile direttamente ma solo grazie alle alterazioni gravitazionali che provoca e che è più abbondante della materia ordinaria (circa nove volte di più). Conoscerla meglio, con buona pace di Dart Fener e dell’inquietante lato oscuro della forza, significa aprire una finestra sull’origine dell’universo e forse sulla vita.
I dadi di Dio
Una volta, a proposito di alcune stranezze della Meccanica Quantistica, uno sconsolato Einstein sbottò con un “Non posso credere che Dio giochi a dadi!”. A Niels Bohr non parve vero e rispose piccato “Einstein, smettila di dire a Dio cosa deve fare!”. A parte il divertente siparietto, la faccenda ci fa capire quanto sia difficile per chiunque uscire dai propri schemi mentali. Einstein, infatti, è di cultura ebraica; il suo è il Dio di Spinoza, la Natura regolata, la Ragione incarnata nelle cose: un Dio così non giocherebbe mai a dadi. Bohr è invece danese, figlio della concezione individualista e pessimistica di Kierkegaard; e per Kierkegaard Dio se ne infischia altamente dell’ordine richiesto dall’uomo e può benissimo cambiare le carte in tavola, se vuole. Più recentemente Stephen Hawking ha rincarato la dose affermando che “Non solo Dio gioca a dadi, ma li getta dove noi non possiamo vederli”. E se lo dice il padre putativo dei Buchi Neri…
Cancun. Il paradiso della Riviera Maya
Anno 1500. Gli spagnoli sbarcano sul continente. Cercano oro, gloria, potere. Parlano o provano a farlo con i nativi, ma non c’è dialogo. Come potrebbe esserci del resto? C’è troppa diversità, per loro è un mondo nuovo, incomprensibile, è il Nuovo Mondo, un mondo che non va capito ma solo conquistato. La civiltà dei Maya è già al tramonto quando gli uomini che vengono dal mare arrivano sulle loro coste, ha più di sei secoli di storia, ma nessuno di quegli uomini vestiti di ferro ha pazienza, chiedono con forza “Dove siamo?”. “Yucatán”, rispondono i Maya. Il termine significa solo “Non capisco” ma è rimasto. E Yucatán è il nome con cui, ancora oggi, è nota la penisola forse più stupefacente del Golfo del Messico. Se si sorvola in aereo questo cuneo di calcare bianco proteso nel verde-azzurro del Mar dei Caraibi salta subito agli occhi la sua natura eccessiva e quasi violenta. Una giungla impenetrabile, le rocce calcinate dal sole, gli occhi blu dei cenotes, i pozzi carsici dove si raccoglie l’acqua del sottosuolo, l’anima di Chac, il dio probabilmente più importante del pantheon maya. Forse i Maya vedendo oggi Cancun esclamerebbero stupiti ancora “Yucatán”. In effetti Cancun è un non luogo. Non ha storia, non ha origini. Cancun è un organismo che ha preso vita dal nulla negli anni settanta. Allora era solo una striscia di sabbia bianchissima stesa sul turchese del mare che racchiudeva alle spalle una laguna da sogno di acque placide e trasparenti. Sull’altra costa, quella del Pacifico, furoreggiava Acapulco: alberghi, jet set internazionale, bella vita. La zona atlantica non aveva nulla del genere, e gli occhi del Messico un giorno si sono appuntati su quest’isola stretta e lunga e, il giorno dopo, è nata la sfolgorante Cancun. Oggi quest’isola, che si estende a forma di L rovesciata, non è più tale. Ai due estremi è collegata alla terraferma da due ponti: uno è quello sul canale Nichupte, a nord ovest, nella zona dove si concentrano gli hotel, l’altro è sul canale Nizuc, all’estremo opposto. Questa vocazione all’accessibilità è testimoniata non solo dal vicino aeroporto che, dopo quello di Città del Messico è lo scalo più importante del Paese, ma anche dalle arterie stradali che permettono di raggiungere agevolmente tutte le numerose attrattive dello Yucatán. Perché se è vero che a Cancun si va per il mare e per trascorrere un soggiorno all’insegna del relax e del piacere, non va dimenticato che a pochi chilometri ci sono luoghi che rispondono al nome di Chichèn Itzà, Tulum, Cobà e Uxmal, solo per citarne alcuni. A Cancun di maya in verità non c’è molto. Tuttavia dopo una battuta di pesca d’altura, un cocktail in spiaggia e prima di perdersi nelle lusinghe della sua vita notturna, una breve visita alle rovine di El Rey o di Yamil Lu’um può costituire un primo approccio a una civiltà tanto complessa quanto ancora misteriosa. Le spiagge e il mare sono però, come detto, un richiamo irresistibile. Caraibi allo stato puro. I colori dell’acqua quasi feriscono gli occhi per quanto sono intensi: blu, turchesi e verdi si rincorrono in una stupefacente alternanza di tonalità e gradazioni senza soluzione di continuità. Le spiagge più belle sono quelle di Las Perlas, Langosta, Tortugas e Playa Delfines; davvero incredibile la lunga distesa di Playa Ballenas. Per gli amanti dello snorkeling è difficile trovare luoghi migliori anche se per le emozioni più forti è necessario ricorrere alle escursioni organizzate che permettono di raggiungere i fondali più belli e più ricchi. Per chi invece non si trova troppo a proprio agio con mute, maschere e boccagli, nei pressi della zona hotelera si trova un piccolo ma molto ben organizzato acquario dove è possibile ammirare squali, delfini e altri splendidi esemplari della vita marina. Assolutamente da non perdere poi un’escursione nella giungla dell’interno. Qui, anche se non più come un tempo, regna ancora incontrastato il dio giaguaro, e se si avrà pazienza e una buona dose di fortuna forse lo spirito della foresta dei maya si convincerà a regalare almeno una fugace apparizione.
I cenotes. Il santa sanctorum dei Maya
Contrariamente a quel che si può immaginare, questo è un territorio arido. Nello Yucatán non c’è acqua in superficie, né fiumi né ruscelli. E allora come si spiega una selva così lussureggiante e, soprattutto, la nascita di alcune fra le città più potenti e popolate dei Maya? La risposta è nei cenotes, i pozzi considerati sacri dove confluisce tutta l’acqua piovana. La natura carsica della penisola fa sì infatti che l’acqua filtri nelle profondità del terreno e si unisca in fiumi sotterranei che poi sfociano in grandi caverne. Alcune di queste in epoca remota sono collassate e si sono così trasformate in pozzi, alcuni molto profondi, d’acqua dolce.