Elba. L’isola fra ferro, pietra e mare
“Chi vuol vedere Pisa vada a Genova”. Il detto è della fine del Duecento e non ha niente di turistico: è l’epilogo di una storia tragica, la fine di una città potente sul mare e temuta sulla terraferma, un dramma che nasce, come spesso capita nelle storie di mare, dall’aver lanciato una sfida troppo grande e troppo arrogante al destino. L’isolotto della Meloria è poco più di uno scoglio al largo della costa, appena a nord dell’Arcipelago Toscano, poche miglia a nord di Piombino: di fronte c’è l’importante base navale di Porto Pisano. È il 6 agosto 1284 e fa un caldo torrido. Di fronte due flotte imponenti: quella genovese forte di 63 galee e quella pisana che ne schiera 72. I Pisani un mese prima avevano messo a ferro e fuoco il litorale ligure e, prima di rientrare, si erano presentati davanti al porto di Genova e avevano lanciato un guanto di sfida ai rivali, una provocazione: una pioggia di frecce d’argento. Quel guanto era stato raccolto e ora, in quel braccio di mare conteso da sempre, stava infuriando una battaglia spaventosa, senza quartiere. Frecce, proiettili da catapulta, fuoco greco, persino sassi e calce viva: dalle navi i soldati si scagliano di tutto e le tolde cominciano ad arrossarsi di sangue. Non s’era mai vista una cosa simile. Dai moli le donne pisane assistono in silenzio, come statue di sale: lì ci sono mariti, padri, fratelli; circa 16.000 uomini, quasi l’intera popolazione maschile adulta della città. Possono solo guardare e pregare. A un tratto sbarrano gli occhi. “Attenti!” gridano gli occhi, “Attenti!” urlano migliaia di gole. Da dietro gli scogli sbucano 30 galee genovesi e investono come un uragano il fianco dello schieramento pisano: era la squadra nascosta di Benedetto Zaccaria che nessuno aveva visto. Legni infranti, navi che colano a picco, altre che diventano immense torce; le tolde di alcune galee pisane vengono completamente spazzate via dalle catene tese da coppie di imbarcazioni genovesi. È una carneficina ed è la fine di Pisa. Fra morti e feriti i Pisani perdono 5.000 uomini e 11.000 verranno gettati nelle prigioni genovesi: pochissimi torneranno dalle loro donne, la maggior parte morirà di stenti e verrà seppellita in quella zona di Genova chiamata ancora oggi Campo Pisano. Ma perché tanto accanimento? Cosa giustificava tanto furore? Il fatto è che quel tratto di mare al cui centro si trova l’Arcipelago Toscano è strategico, è un ponte fra la costa tirrenica e le due grandi isole di Corsica e Sardegna. E poi lì c’è l’Elba, il più importante giacimento di ferro del Mediterraneo occidentale. A suo tempo Cartaginesi, Etruschi e Greci se l’erano già date di santa ragione per gli stessi motivi. Poi sono arrivati i Romani. E poi i Saraceni. E Pisani, Genovesi, Spagnoli, Inglesi, Francesi, Austriaci: se l’Elba potesse parlare parlerebbe una lingua da Torre di Babele. Ma perché dovrebbe? L’Elba non ha bisogno di dire nulla, a parlare è il suo mare perché, a dispetto di guerre, contese e giochi di potere, il mare dell’Elba è ancora lì, splendido come non mai, con le sue acque cristalline, le spiagge di sabbia bianca, le cale da sogno, le sue scogliere spettacolari, i suoi fondali; lì, muto testimone delle piccole e insignificanti beghe umane. Il primo incontro con l’Elba è a Portoferraio. Una volta si chiamava Fabricia e il nome la dice lunga su cosa pensassero dell’isola i Romani. Qui infatti non veniva caricato solo il ferro, ma anche il pregiato granito elbano che si può ancora ammirare nelle colonne del Pantheon e in molti altri edifici. Oggi l’impianto è quello che gli ha dato Cosimo de’ Medici, e passeggiare fra le viuzze del grazioso borgo medievale cinto da mura è davvero piacevole perché, anche d’estate, non fa troppo caldo e una lieve brezza di mare scompiglia i capelli e le gonne delle ragazze isolane. Da vedere il Forte Stella, la Chiesa della Misericordia e l’importante Museo della Linguella che ospita reperti etruschi e romani. A Villa dei Mulini aleggia ancora lo spirito di Napoleone Bonaparte che qui venne esiliato per breve tempo dagli Inglesi ma che l’isola non ha mai dimenticato: ogni 5 maggio, anniversario della sua morte, nella Chiesa della Misericordia viene celebrata una messa in suffragio. Tracce della passata dominazione pisana si trovano un po’ ovunque, soprattutto verso Marciana Marina. È uno degli antichi borghi marinari rimasti ancora intatti – un altro è alla Girolata, in Corsica – e fra vicoli e piazzette si incontrano la Torre e la Fortezza Pisana, la Chiesa di Santa Caterina e l’antica residenza degli Appiani. Nei pressi di Marciana c’è la Spiaggia delle Ghiaie, bellissima, con una curiosa leggenda che riguarda i suoi famosissimi ciottoli striati. Ne parlano Diodoro Siculo e Apollodoro di Rodi. Il più interessante è quest’ultimo. Apollodoro è un poeta di età ellenistica, responsabile dopo Zenodoto della famosa Biblioteca di Alessandria, grande filologo e erudito che fra le altre cose è noto per aver scritto la sola versione arrivata intatta fino a noi di una storia antichissima e molto nota: la spedizione di Giasone e degli Argonauti alla conquista del Vello d’Oro. Narra Apollodoro nelle Argonautiche che Giasone riesce nell’impresa perché aiutato da Medea, la figlia del re, innamorata dell’eroe per volere di Era e Athena. Una volta sottratto il Vello, però, la situazione precipita: Eete re dei Colchi invia un esercito al comando di suo figlio per recuperare il maltolto. Per salvare il suo amante e prendere il largo, Medea arriva a ordire un inganno per rallentare gli inseguitori: uccide e fa a pezzi il fratello. È un delitto tanto efferato che non può essere ignorato: va espiato. La nave Argo inizia così una peregrinazione nel Mediterraneo alla ricerca della maga Circe, sorella del re, la sola in grado di perdonare i due assassini. Nei suoi giri la nave di Giasone arriva anche all’Elba, e approda proprio alla bianca e sassosa Spiaggia delle Ghiaie; era stato un viaggio duro e gli Argonauti esausti si tergono il sudore: quelle stille macchiano i sassi che da allora saranno così per sempre. Le spiagge più spettacolari però si trovano a sud, a Fetovaia, vicino al bellissimo borgo di Capoliveri eletto a residenza da artisti e scrittori. Verso il Monte Capanne, il più alto rilievo dell’isola, si trova Poggio e poco più avanti Capo Sant’Andrea. Chiessi ha incantevoli case bianche col tetto rosso e lì vicino si trova il faro di Punta Polveraia. Pomonte gode di un paesaggio stupendo, incastonato com’è in un anfiteatro naturale lavorato a terrazze. Dall’altra parte c’è Porto Azzurro, un tempo colonia penale e oggi uno dei luoghi più “in” dell’isola, frequentatissimo dal jet set internazionale, dove vicino ai locali alla moda e alle boutique dello shopping si trovano il Forte San Giacomo e il Santuario di Monserrato. Da non perdere il Parco Minerario, vicino a Rio Marina, eletto dall’Unesco monumento geologico fra i più importanti del pianeta, il castello del Volterraio e la strada della Falconaia. E se l’Elba non è sufficiente a soddisfare la voglia di mare allora non resta che eleggerla a base per escursioni impegnative nelle solitarie isole di Pianosa, Capraia e Montecristo, primitive e selvagge quant’altre mai.
L’Elba a tavola
La cucina elbana risente della sua conformazione. Sulla costa domina il pesce, nell’interno il miele, i dolci e il pane. Nei piatti tipici c’è la storia dell’isola e delle sue tante dominazioni. Insieme a polpi, zerri, aragoste e cacciucco si trovano le imbollite (delle focaccine a base di fichi), la sportella (un pane con anaci, cioè con semi d’anice), il gurguglione, la sburrita e lo stoccafisso. Fra i dolci il corollo, il ceremito, la schiacciunta e la sommadura. Il ceremito e la sportella, in particolare, sono i protagonisti di una tradizione di Rio d’Elba che si rinnovava ogni anno durante il periodo pasquale. La storia era così: se a un giovane piaceva una ragazza, la mattina della Domenica delle Palme faceva trovare davanti alla porta dell’amata un paniere colmo di fiori con il ceremito; se la ragazza gradiva il regalo e quindi accoglieva la dichiarazione d’amore, per Pasquetta regalava al giovane la sportella infiocchettata e benedetta. Di origine saracena è invece la schiaccia briaca, un dolce a base di pinoli e uvetta. Fra i vini assolutamente da non perdere il Procanico, il Sangioveto, l’Elba bianco e l’Elba rosso. L’Aleatico dell’Elba merita una menzione a parte. È un passito dal colore rosso rubino intenso di grande qualità che si produce solo all’Elba e a Gradoli.
Bari. La vera patria di Babbo Natale
Con buona pace di finlandesi, renne e aurore boreali, Babbo Natale è di Bari e con i paesaggi innevati non c’entra proprio nulla. E c’entra ancora meno con una notissima bevanda gassata americana. Anzi, a dirla tutta, e se si sorvola su un bislacco gioco di parole, è la Licia, oggi in Turchia, ad aver dato i natali a Babbo Natale. La storia di come sia accaduto che una figura che probabilmente era più a suo agio con la canicola, il mare e le palme si sia trovata a un certo punto intabarrata in panni pesanti bordati di pelliccia a condurre una slitta trainata da renne ha dell’incredibile. Nicola è il vescovo di Myra, in Lidia, e tutti lo considerano un santo. Quando muore dalle considerazioni si passa ai fatti e Nicola santo lo diventa davvero. Siamo nel IV secolo e da pochi anni Costantino ha stabilito che il Cristianesimo è la religione ufficiale dell’Impero: basta poco perché il culto si diffonda anche nelle Province più lontane. I Germani notano una certa somiglianza fra San Nicola e il loro Odino e non ci mettono molto a sovrapporre le due figure: il santo orientale diventa prima Sint Nicolaas e poi Santa Claus. Peraltro San Nicola, già in vita, era particolarmente legato al mondo dell’infanzia e nelle Terre del Nord esisteva una leggenda nella quale Odino distribuiva dolci e regali ai bambini in occasione del solstizio d’inverno (cioè il 21 dicembre). Siamo insomma già quasi al Babbo Natale che tutti conosciamo, mancano ancora due cose: come si arriva al costume rosso, alle renne e a tutto il resto e cosa c’entra Bari. Per la prima faccenda bisogna andare negli Stati Uniti. Ai primi dell’Ottocento un poeta di New York, tale Clement Clarke Moore, scrive la poesia “A Visit from Saint Nicholas” dove il santo viene descritto come un elfo paffutello dalla barba bianca, i vestiti rossi orlati di pelliccia e una slitta trainata da renne con un sacco pieno di giocattoli per i bambini. Qualche anno dopo l’illustratore Thomas Nast lo raffigurò così sulla rivista Harper’s Weekly e da allora è l’incubo delle mamme all’ingresso dei centri commerciali nel periodo natalizio. Per Bari bisogna fare un passo indietro. Intorno alla fine dell’anno 1000 si pensa a una spedizione per trafugare le spoglie del santo in una terra ormai sotto il dominio musulmano. Bari si candida in competizione con Venezia e un gruppo di commandos baresi parte per la missione impossibile che, incredibilmente, riesce. I resti di san Nicola arrivano in città, San Nicola diventa San Nicola di Bari e intorno a lui sorge prima un culto, poi una basilica e infine la Bari Vecchia di stampo normanno che, in parte, esiste ancora oggi. Bari Vecchia è il cuore della città, anzi fino all’Ottocento, era la sola Bari esistente. Oggi ce ne sono altre due disposte ad anello intorno alla prima: il Borgo Nuovo voluto da Gioacchino Murat all’esterno delle mura medievali e più all’esterno la Bari moderna. Per un barese doc, tuttavia, Bari è nell’intrico delle stradine della parte vecchia: i vicoli che si perdono fra le abitazioni, le donne che preparano le orecchiette davanti all’uscio di casa, gli odori che si diffondono all’ora del pranzo, il profumo del basilico, del rosmarino e della salvia nei vasi sui davanzali delle finestre. Credi di sapere tutto, ti rilassi, ti fai cullare dalla quiete sonnolenta e poi, di colpo, ti trovi davanti l’imponenza della severa geometria del Castello Svevo di Federico II o il capolavoro romanico della Basilica di San Nicola. Bari in fondo è così: prima ti strappa il cuore parlandoti sottovoce, poi ti lascia a bocca aperta facendosi ammirare in tutto il suo splendore che sa d’oriente e di mirra. Come nella Cattedrale di San Savino, il più importante edificio romanico di tutta la Puglia dove, nonostante i rimaneggiamenti rinascimentali, persiste quell’aria molle e levantina che Bari, seconda città dell’Impero Bizantino dopo Costantinopoli, ha avuto per secoli. E per chi ama l’arte Bari riserva sorprese straordinarie. La Pinacoteca, all’interno del Palazzo Provinciale, ospita insieme a icone e sculture medievali numerosi dipinti di scuola veneziana – fra cui opere di Tintoretto e Paolo Veronese – macchiaioli toscani (Fattori, Signorini) e grandi dell’arte moderna come Carrà, Morandi e De Chirico; al Museo Archeologico, invece, c’è la storia più antica di tutta la regione con testimonianze, oltre a quelle romane e bizantine, del popolo dei Dauni, dei Messapi e dei Peucezi. Uscendo dalle mura si entra in un altro mondo: è la città a scacchiera di Murat, le vie ordinate, gli edifici squadrati. Un monumento alla razionalità che stride col carattere orientale della parte vecchia. E ancora più all’esterno, l’architettura della contemporaneità: lo stadio di Renzo Piano, la struttura della Fiera. Mille anime, insomma, fuse in una sola città di appena quattro lettere; come l’altra, Roma, che condivide con Bari la vocazione a accogliere culture diverse e trasformarle in un’unica grande espressione dell’arte.
La Fiera del Levante
Che Bari sia ancora un importante scalo marittimo per tutto il Mediterraneo orientale lo testimonia il fatto che ogni anno, dal 1930, data della prima esposizione, la Fiera del Levante polarizza l’interesse di migliaia di investitori e espositori e che negli ultimi anni è arrivata a richiamare oltre un milione di visitatori. La manifestazione principale è la “Campionaria di settembre”, tuttavia già da alcune edizioni la Fiera ospita sezioni tematiche come EdilLevante – Costruire, EdilLevante – Abitare, il Salone dell’arredamento, Motus il Salone dell’Auto, della Moto e degli Accessori, Bi-Mu la fiera biennale delle macchine utensili e le meccatronica e AgriMed. Espositori da tutto l’oriente mediterraneo, dai Balcani, dall’Africa settentrionale e dal sud-est asiatico si danno convegno qui e c’è da dire che per Bari, ormai, la Fiera del Levante è anche un vero e proprio evento visto che in occasione della settimana fieristica la città ospita moltissime manifestazioni legate al mondo dello spettacolo e della cultura. Obiettivo dichiarato è costituire un punto di incontro fra mercati europei e realtà commerciali del sud e dell’est, una formula così indovinata che la Fiera del Levante negli ultimi tempi è stata esportata anche all’estero, in Albania, in Macedonia, in Libia, in Romania e anche in Germania.
Bari a tavola
Parlando di gastronomia barese se si mancasse di iniziare con le Orecchiette si rischierebbe di essere banditi a vita. Tuttavia, anche se è un piatto che più barese non si può, c’è da dire che la pasta secca di grano duro venne introdotta in Puglia da mercanti provenzali. Il classico è con le cime di rapa passate in padella con aglio, olio, peperoncino e a volte alici, ma vanno benissimo anche i broccoli. Il grano, si sa, è una delle colture più diffuse in Puglia e focacce, calzoni, taralli, friselle e pani conditi la fanno da padrone in tavola. Anzi, il rapporto fra grano e cultura gastronomica pugliese è così stretto che qualche anno se ne occupò anche il cinema. “Focaccia blues” è un bel film di Nico Cirasola che racconta una vicenda realmente accaduta. Nel 2001, un bel giorno, viene inaugurato ad Altamura il primo fast food McDonald’s. Non passa nemmeno un mese che il panettiere Luca Di Gesù, con il fratello Giuseppe, apre lì vicino una piccola focacceria. Davide contro Golia, insomma. Un vero e proprio suicidio si diceva. E invece, dopo appena un anno, incredibilmente il fast food è costretto a chiudere per mancanza di clienti: la focaccia pugliese aveva mangiato il re dell’hamburger. Solo, si fa per dire, focacce e panzerotti? Macché, come dimenticare che Bari si affaccia su uno splendido mare? Dentice alle olive, orata alla San Nicola, linguine al sugo di seppia, alici arracanate e polipetti in casseruola. E ancora la teglia di riso, patate e cozze retaggio della dominazione spagnola e la ciambotta, uno stufato di verdure profumato al basilico che occasionalmente viene arricchita con pesce. Nel bicchiere ovviamente l’immancabile Primitivo o il rubino intenso del NegroAmaro.