Yucatán. Viaggio al termine della notte
Mettiamola così: se state leggendo quest’articolo possiamo tutti tirare un sospiro di sollievo e prendere l’intera faccenda come una curiosa nota di costume; in caso contrario, be’, c’è poco da fare, perché avranno avuto ragione loro, i Maya. La data, divenuta ormai patrimonio dell’immaginario collettivo grazie a film, articoli e dibattiti, è quella del 21 dicembre 2012 ed è il giorno in cui secondo alcuni, citando una profezia Maya, tutto avrà fine. Non è una grande novità a ben vedere, perché storicamente previsioni catastrofiche legate a date particolari sono sempre state avanzate e, anche se poi si sono risolte in un nulla di fatto, spesso qualche effetto l’hanno prodotto comunque: basti ricordare l’ondata di psicosi e irrazionalità che dilagò nel Medioevo all’approssimarsi dell’anno Mille e le più recenti ansie per il Millennium Bug. Stavolta però, sempre secondo i bene informati, sembra che le cose stiano in maniera alquanto diversa e che la profezia del 2012 abbia solide basi. Ma da dove nasce tutta questa certezza? Perché gli si dà tanto credito? E, cosa ancora più importante, quanto c’è di vero? Per capirlo bisogna rivolgersi al mondo dei Maya. Il golfo del Messico è un enorme braccio di mare dalla forma quasi perfettamente circolare chiuso a nord dalla Florida e a sud dalla penisola allungata dello Yucatán. Se Cuba ruotasse un po’ sul suo asse il golfo diventerebbe il più grande lago del mondo, quattro volte la superficie del Mar Caspio e quasi tre e mezzo quella del Mar Nero. Qui una catastrofe di proporzioni apocalittiche si è già verificata: 65 milioni di anni fa un meteorite si schiantò nei pressi di Chicxulub vicino Mérida e cancellò per sempre la razza dominante dei grandi rettili non aviani. La vita, anche se in un’altra forma, lentamente riprese i suoi spazi e, verso il 1.500 a.C., i primi Maya cominciarono a abitare il terreno carsico e lussureggiante dello Yucatán e le giungle del Guatemala spingendosi, con la città di Copán, fino all’Honduras. La civiltà dei Maya ha sempre suscitato un’ammirazione sgomenta e una certa diffidenza: come ha potuto un popolo tutto sommato fermo all’età della pietra, che non conosceva né la ruota né la metallurgia a edificare città maestose, a sviluppare un’arte complessa e raffinata, a elevare templi immensi e sontuosi centri cerimoniali, a realizzare strade rialzate e lastricate che attraversano le foreste e collegano le diverse città-stato, a possedere una scienza matematica e astronomica talmente raffinata da essere attuale ancora oggi? Pedro de Alvarado, luogotenente di Cortéz, non si lambiccò troppo il cervello, e anche se la grande stagione dei Maya era già tramontata da più di mezzo secolo, prese acciaio e polvere da sparo e spazzò via quel che ne rimaneva. Quello che Alvarado non poteva sapere è che il cuore della cultura Maya è immateriale e non poteva essere distrutto in quel modo perché il segreto dei Maya è nella natura tutta particolare della loro visione del mondo e nel sistema di relazioni e rapporti che hanno concepito per realizzarla. Il viaggio per entrare nel profondo dello spirito Maya può anche cominciare dalla modernità scintillante di Cancun e dalle vertigini in turchese dei Caraibi ma poi ha bisogno del silenzio, di quel max hum di cui parlavano i sacerdoti-sciamani. Un silenzio che diventa solido quando di mattina presto dalla giungla che stilla rugiada e singhiozza nebbia si materializza la Piramide dell’Indovino di Uxmal o quando dal chiarore lattiginoso emerge l’immensa facciata e le immagini in rilievo di Chac del Palacio de las Mascaras di Kabah. È la via ruinas che da Mérida arriva all’interno, a Sayil, Labná, X-La’Pak per risalire verso Chichen Itzá e Cobá e finire a Tulum, la fortezza sul mare dedicata a Xchel dea della Luna. Per i Maya le esistenze di ogni essere del creato, compresi gli animali, le piante, le rocce e l’acqua, sono strettamente intrecciate: le une non possono esistere senza le altre. Tutto il mondo è animato e possiede il ch’uleI, lo spirito immortale, che è presente in molte forme tutte correlate e a volte condivise. L’anima mortale degli uomini, il vayihel, ad esempio può assumere forme animali e a loro volta le cose possono essere espressioni della divinità, come gli ancestrali dei-colibrì. L’uomo non è signore della natura ma parte di essa, ecco perché qualsiasi atto, soprattutto l’uccisione di un essere vivente, pianta o animale che sia, riveste la dignità di un’azione rituale, di un sacrificio. Per un Maya è assolutamente comprensibile che senza chiedere il permesso tagliando un albero cada una stella del cielo. E questo è esattamente quello che viene spiegato nella moderna Teoria del Caos con l’Effetto Farfalla: una stupefacente versione speculativa di oltre 1.200 anni fa di fisica matematica. I Maya infatti teorizzarono che questi rapporti erano retti da relazioni matematiche di natura ciclica e origine divina che potevano essere comprese solo attraverso una visione mistica e un senso profondamente religioso. Oggi i rumori, le autostrade e le costruzioni della civiltà occidentale scacciano gli dei dalla foresta e per gli ultimi Maya è proprio la scomparsa del mondo religioso il preludio e la causa della prossima fine del mondo, del terzo xu’tan, la fine del ciclo cosmico. Secondo quanto riportato nel Popol Vuh dei Maya Quiché, infatti, la nostra è la terza generazione di uomini, quella degli uomini di mais, che segue quella degli uomini di fango e quella degli uomini di legno entrambe distrutte alla fine dei rispettivi 13 b’ak’tun del Lungo Computo. E il 13 b’ak’tun del ciclo degli uomini di mais cadrà, secondo la correlazione col calendario gregoriano, proprio il 21 dicembre del 2012. Per i Maya tuttavia la fine di un ciclo significava solo rinnovamento, una nuova stagione del creato, non la prefigurazione di catastrofi cosmiche. È anche vero, però, che il rito celebrato dai Maya Lacandoni che si verificava ogni anno da tempo immemorabile è stato celebrato per l’ultima volta nel 1970. Da allora la foresta degli dei non parla più.
L’alfabeto di nodi
Quando gli Spagnoli conquistarono le città dei Maya distrussero sistematicamente ogni elemento della loro cultura in nome di un Dio cristiano che per gli indios risultava del tutto incomprensibile. Dei loro libri sacri non sopravvissero che quattro codici, di cui due incompleti, due libri, il Popol Vuh e il Chilam Balam, che però dei testi antichi sono versioni del tempo dei conquistadores e mute rovine di templi. Quale altra via restava ai Maya per conservare la propria identità? Restavano le donne, e nelle loro mani fu messa tutta la disperazione di un mondo violentato che non voleva morire. Oggi chi vuole conoscere la storia dalla viva voce degli ultimi Maya deve leggere i ricami colorati che le donne tessono pazientemente sui loro telai. Gli Spagnoli sospettarono che dietro quei fitti disegni si nascondesse un codice e cercarono di sradicare anche l’usanza di indossare il tradizionale huipil. Senza successo stavolta, perché i coloratissimi huipil sono ancora le casacche tradizionali che nessun Maya si sognerebbe di gettare alle ortiche. Dai disegni e dai colori dell’huipil si può non solo risalire al gruppo etnico di appartenenza – Quiché, Tzotziles, Lacandoni, Ch’ol o Tzeltal – ma anche trovare in forma simbolica tutti quei racconti mitici e quelle storie che definiscono l’identità di un popolo. Nelle figure e nei fili intrecciati, nell’alternanza dei nodi, c’è il calendario dei Maya, la scansione dei cicli e delle età, un’intera cosmologia che descrive i suoi 13 paradisi e i suoi 9 inferni, dei e demoni. Spesso il senso compiuto è andato perduto, ma le donne tessono comunque riannodando i fili della memoria in un andirivieni continuo fra veglia, sogno e razionalità. Una via misteriosa per la conoscenza che passa per la bellezza dell’arte e l’ancestrale consapevolezza delle donne.
Vienna. La perla degli Asburgo
Per un periodo di tempo lunghissimo Vienna è stata la capitale del mondo, di un certo tipo di mondo. Se altre nazioni affermavano la loro superiorità espandendosi sul mare e fondando colonie, l’Austria al contrario divenne un impero territoriale. Probabilmente una sua certa aria compassata e la resistenza quasi ottusa a qualsiasi innovazione la si deve al fatto che ogni cosa si misurava in passi laddove altri utilizzavano miglia marine. Del resto è noto che se esistesse una cartina di tornasole in grado di misurare il livello di conservatorismo di una società umana, al primo posto figurerebbero i contadini e all’ultimo i marinai. Tuttavia esiste anche una ragione per così dire geografica che giustifica la rigidità asburgica, è una questione di sopravvivenza. Vienna infatti è attraversata dal Danubio, e il Danubio è stato per millenni un confine naturale che divideva la civiltà dalla barbarie. Al di là del grande fiume che sfocia nel Mar Nero c’erano le steppe sconfinate da dove veloci come il vento e distruttive come la tempesta arrivavano a ondate le tribù di cavalieri-pastori. I Romani lo sapevano bene e Vindobona, l’attuale Vienna, era considerata il centro nevralgico del sistema difensivo verso est. Ma è molto più tardi che Vienna diventò simbolo di un’intera cultura, l’ultimo baluardo della civiltà occidentale sotto assedio. È il 27 settembre del 1529. Ibrahim Pascià ha portato un’armata ottomana immensa, fra i 150.000 e i 200.000 uomini, fin sotto le mura della “mela d’oro”, il nome che i turchi danno a Vienna. Sugli spalti non più di 20.000 difensori. L’Europa dilaniata dalle lotte dinastiche non può intervenire e gli aiuti si limitano a un contingente di archibugieri spagnoli del Tercio, una compagnia di Lanzichenecchi e poco altro. Solimano, il sultano della Sublime Porta, vuole assestare la spallata finale all’Occidente, vuole Vienna come Maometto II ebbe Costantinopoli sessanta anni prima. Inizia il cannoneggiamento ottomano ma fa pochi danni perché le armi pesanti s’erano impatanate in Transilvania. L’11 di ottobre riprende a piovere e le mine turche non riescono a far breccia. Il malcontento e le epidemie serpeggiano nell’esercito turco. Ibrahim Pascià decide di fare un ultimo tentativo ma le picche e gli archibugi degli Austriaci fanno il vuoto negli attaccanti. Non resta che la ritirata e la promessa di tornare. Che si fa attendere parecchio, ma nel luglio del 1683 l’esercito turco forte di oltre 200.000 uomini, guidato da Kara Mustafa Pasha, è di nuovo alle porte di Vienna e stavolta la minaccia è molto più seria. I pochi difensori non riescono a opporre una resistenza efficace e ormai, dopo due mesi d’assedio, le mura sono quasi sbriciolate e interi quartieri distrutti: all’alba del 12 settembre un pugno di uomini stanchi e laceri guardano sgomenti i preparativi nel campo turco. Mustafa Pasha però non sapeva che i dissidi fra i monarchi europei si erano di colpo appianati e un esercito di soccorso di 80.000 soldati è arrivato a tappe forzate fino alle colline a nord di Vienna: fra questi c’è Jan Sobieski re di Polonia e la sua leggendaria cavalleria pesante, i 3.000 Ussari Volanti. L’esercito turco è riuscito a contenere la fanteria di Carlo di Lorena, ha fatto saltare l’ultimo diaframma delle mura e i Giannizzeri stanno già dilagando in città quando Sobieski scatena la carica degli Ussari. Sulla schiena gli Ussari dalle corazze brunite innalzano dei palchi di legno e piume d’aquila che li fanno somigliare a angeli sterminatori e che, nell’impeto dei cavalli lanciati al galoppo, sibilano al vento. Sciabole luccicanti, grida disumane: i Turchi non reggono. Racconta il cronista turco Mehmed der Silihdar: “Gli infedeli spuntarono sui pendii come nuvole di un temporale, ricoperti di un metallo blu. Arrivavano con un’ala di fronte ai valacchi e moldavi addossati a una riva del Danubio e con l’altra fino all’estremità delle divisioni tartare, formando un fronte di combattimento simile a una falce. Era come se si riversasse un torrente di nera pece che soffoca e brucia tutto ciò che gli si para innanzi”. La disfatta turca segnò il decollo dell’Austria come potenza e probabilmente l’euforia a seguito dell’insperata vittoria fu anche responsabile del periodo più creativo e frizzante della cultura austriaca. Senza Sobieski non ci sarebbe stato insomma nessun Mozart e forse nemmeno i croissant. Si dice, ma i francesi non sono d’accordo, che questa sia stata una trovata dei pasticcieri viennesi per festeggiare lo scampato pericolo: la forma dei croissant richiama infatti la mezzaluna, emblema dello sconfitto esercito ottomano. Ed è proprio con questa leziosa leggerezza, sbocconcellando un fragrante croissant, che bisognerebbe iniziare la scoperta di questa straordinaria città; bisognerebbe dimenticare di indossare jeans, giacconi e scarpe dalla suola scolpita per immaginarsi in marsine di velluto ricamato, camicie dai polsini merlettati, pantaloni al ginocchio, andrienne scollati di seta frusciante dai colori sfolgoranti, crinoline e scarpini col tacco. Perché Vienna è così, come i suoi dolci, colorata, molle e sorprendente come la marmellata fra i due strati scuri della Sacher. Stephansplatz è la piazza principale, vi troneggia la Cattedrale, e vi si respira ancora quell’atmosfera di incrollabile certezza nel Sacro Romano Impero. Gli edifici sono stati ricostruiti dopo i bombardamenti dell’ultima guerra ma il fascino è rimasto inalterato. Nei pressi l’Erzbischoflisches Palais, il palazzo arcivescovile dall’architettura barocca. Gli edifici sacri, in una città come Vienna che si è considerata per secoli il baluardo della cristianità, sono presenti ovunque. Il legame fra casa regnante e culto religioso è evidente nella Augustinerkirche, teatro dei matrimoni degli Asburgo, nella Kaisergruft, la cripta che ospita le loro tombe e nella Schatzkammer, il museo del tesoro, ma loro apoteosi è all’Hofburg, il palazzo imperiale, in Michaelerplatz. Per gli appassionati d’arte Vienna è un piccolo gioiello. Il Museo delle Belle Arti in Maria Theresien Platz, è il più importante della città e la sua pinacoteca – con la Madonna del Prato di Raffaello, i Ritratti delle Infanti di Velazquez, l’Arte del Dipingere di Vermeer e altre di Rubens, Rembrandt, Durer, Tiziano e Tintoretto – è considerata una delle 10 più importanti al mondo. Da non perdere lo Schloss Belvedere che, oltre a essere uno dei palazzi storici più famosi di Vienna, ospita un importante museo con opere di Klimt e Rainer. Caratteristico il Museums Quartier, un vero e proprio polo artistico e culturale che comprende diversi musei e una vasta area dove si trovano botteghe di artisti, mercatini dell’antiquariato, gallerie d’arte, negozi vintage e locali. Una visita meritano anche la Casa di Mozart, in Domgasse 5, e la Casa della Musica. A Vienna, poi, trova curiosamente spazio anche la modernità. Il Museo Leopold ospita una delle collezioni più importanti dell’arte austriaca moderna, con opere di Egon Schiele e Gustav Klimt, mentre il Museo della Tecnologia offre un panorama quasi unico sulle innovazioni del “secolo breve”. Al numero 12 di Weissgerberstrasse si trova la Kunsthaus, un curioso palazzo decorato con grandi riquadri blu, azzurri e neri dove sono esposte una serie di opere e di bozzetti dell’artista e architetto viennese Friedensreich Hundertwasser, uno dei pionieri dell’utilizzo di materiali biocompatibili in architettura. Può mancare poi un tributo al padre della nevrosi contemporanea? Basta recarsi al 19 della Berggasse: qui c’è la casa di Sigmund Freud, oggi trasformata in Museo.
A tavola con la Principessa Sissi
La cucina austriaca è una cucina di contaminazione che risente molto delle influenze italiane, polacche, ungheresi e ceche. È in ogni caso di tipo continentale e, pur variando da regione a regione, è prevalentemente a base di carne, zuppe di ortaggi e insaccati. Fra i piatti più noti ci sono indubbiamente il Gulasch, la Wiener Schnitzel (una sorta di cotoletta alla milanese), gli immancabili wurstel con crauti, la cacciagione e i tradizionali arrosti di cervo, maialino e oca. Particolari sono invece i canederli di patate e crauti nella zona del Tirolo, la Knoblauchsuppe (zuppa all’aglio), il Beuschel, un piatto tipico composto da sottili fette di polmone e di cuore di vitello e il Palatschinken (una omelette ripiena di marmellata). Ovviamente quanto al bere con la birra si va sul sicuro. Sui dolci però non si discute perché la pasticceria austriaca, soprattutto viennese, è famosa in tutto il mondo. Si va dagli Strudel, ai Kipfel, alla Linzer (una crostata di pasta di mandorle con marmellata di albicocche, ribes o lamponi) e alla Kaiserschmarrn (una sorta di crêpe spezzettata ricoperta di zucchero a velo e servita con marmellata di ribes o mirtilli). A Salisburgo fanno furore i Mozartkugeln o “Palle di Mozart” (cioccolatini ripieni di marzapane e pistacchio), ma la regina delle torte è senza dubbio la Sacher, una torta al cioccolato farcita con marmellata di albicocche o prugne.