Mondo in Blue – The Blue Panorama Magazine gen/feb 2013

Cuba. Mare, musica e sorrisi


Quando si nomina Cuba quello che come un gioco pirotecnico esplode nella mente è fatto di immagini di mille colori. Forse anche di più, perché a quelli reali bisogna aggiungere i colori che l’emozione non riesce a strappare al reale e rapita li inventa. Il mare, la musica, il ballo, ma anche un sorriso o un vestito di cotone stampato gonfiato dalle raffiche delle mareggiate sul Malecòn. Immaginazione, insomma, e l’incrollabile volontà di crederci, la stessa che vede in una zucca una carrozza o in un fagiolo una scala per il cielo. Basta girare per la vecchia L’Avana per rendersene conto. Le macchine sono Buick o Pontiac o Chevrolet degli anni Quaranta, rabberciate, sbilenche, rumorose, ma che hanno curve sinuose che oggi nessun’altra auto può esibire, colori rosa confetto o blu oltremare che nessuna carrozzeria in antracite micalizzato riesce a oscurare. Un mondo che si è fermato il giorno di Capodanno del 1959 con la fuga di Fulgenzio Batista e l’umanità col fiato sospeso per il profilarsi di una guerra nucleare. E tale è rimasto, perché se c’è una cosa che gli americani non perdonano è una sconfitta militare: è successo con Pancho Villa in Messico, è successo a Cuba. Dopo la Baia dei Porci sull’Isla Grande è calata una cortina impenetrabile, un cordone sanitario chiamato embargo che, nelle intenzioni, doveva strangolare l’economia cubana in pochissimo tempo e riportare l’isola così vicina alla Florida in quella sfera d’influenza USA tanto cara alla Dottrina Monroe. Non è successo però, e il solo risultato eclatante agli occhi del mondo è stata la sparizione per decenni dagli humidors dei puros, i mitici sigari cubani cui nessun estimatore riesce a rinunciare. Gli effetti su Cuba invece si sono fatti sentire eccome, e oggi la situazione è diventata insostenibile. Tuttavia la gioia di vivere dei Cubani è rimasta inalterata. Somiglia un poco all’ostinazione con cui gli splendidi edifici coloniali della zona vieja a L’Avana rimangono in piedi anche se malmessi e pericolanti. È una speranza profonda quella che guida i passi dei cubani, passi che forse domani saranno più liberi dopo le aperture dell’amministrazione Obama e le nuove misure circa un parziale allentamento delle chiusure alla frontiera che dovrebbero entrare in vigore il 13 gennaio 2013. Cuba però non è solo L’Avana e il fermento nato dalle ultime novità dovrebbe portare a far riscoprire anche altre zone dell’isola. Santiago de Cuba è una di queste. Per certi versi Santiago rappresenta l’anima vera di Cuba. Qui è iniziata la sua storia con la guerra di indipendenza nei confronti della Corona Spagnola, qui Fidel Castro ha dichiarato la fine della dittatura di Batista, qui è nato il Rum Bacardi. Passeggiare in città riserva continuamente delle sorprese: dal Paseo de Martì, all’Avenida 24 de Febrero, all’Alameda del Puerto è tutto un susseguirsi di splendidi palazzi e piazze alberate che giocano a rimpiattino coi colori del mare. Ma la vera emozione è El Morro. La fortezza domina dall’alto la baia ed è il complesso fortificato meglio conservato di tutti i Caraibi. Arrivarci, fra calette, giardini lussureggianti e i blu profondi di un mare splendido e eternamente cangiante, è già di per sé un viaggio.

Sua maestà il Puro
A Cuba il sigaro è una religione e come ogni religione ha i suoi adepti e fa proseliti. Si potrebbe continuare col paragone dicendo che, come in ogni altra religione, esistono i dogmi, le verità rivelate, l’ortodossia e le eresie. Il fatto è che la pianta del tabacco cresce un po’ ovunque sul continente americano (oggi ovviamente cresce anche altrove) ma solo a Cuba trova le condizioni microclimatiche ideali. La cosa è tanto vera che, anche spostandosi di poco sull’isola, la qualità delle foglie cambia da zona a zona. Il sigaro cubano è composto di tre parti: la fascia (capa), il ripieno (tripa) e la sottofascia (capote). Tradizionalmente sono le donne che si occupano di selezionare le foglie per i diversi impieghi. Una volta scelte, le foglie vengono arrotolate da esperti torceador: l’Avana infatti, almeno nella fascia, deve essere fatto interamente a mano. Per un cubano fumare male un Puro è quasi un delitto. Intanto c’è da dire che il sigaro cubano deve essere conservato in condizioni ottimali di umidità e temperatura fino al momento dell’accensione che, come in tutte le religioni, è un vero rito. Il sigaro, dopo essere stato tagliato all’estremità chiusa, va acceso al piede senza aspirare ma solo facendolo ruotare fra le dita. Solo dopo si può portare alle labbra. La fiamma deve rigorosamente essere quella di un fiammifero o di un accendino a gas. Il Puro va fumato lentamente e consapevolmente, è un rito non un passatempo. E come in un sacrificio la vittima, visto il tramite col dio, deve essere trattata con rispetto: alla fine il sigaro va lasciato morire in solitudine, quasi con amore. Chi schiaccia un Puro nel posacenere andrebbe immediatamente scomunicato e condannato all’inferno dei sigari cubani: un mondo senza bellezza e senza aromi.

 

Thailandia. L’elogio della lentezza


C’è un’espressione in lingua thai che bisogna assolutamente tener presente se si vuole provare a capire questo straordinario paese. È “Mai pen rai” e la si sente in giro molto spesso, a Bangkok come a Phuket. Difficile tradurla esattamente, ma significa grosso modo “non preoccuparti”, “tranquillo, va tutto bene”. La cosa sembra del tutto innocua, ma in certe circostanze rischia di far crollare il mondo faticosamente eretto al dio dell’efficienza e del determinismo dalla mentalità occidentale. “Oggi l’autobus non parte, partirà domani non preoccuparti”, “Tranquillo, il pezzo di ricambio dell’auto arriverà fra due giorni, va tutto bene”. Magari un abitante di Roma, Napoli, Istanbul o Atene fa presto a abituarsi, ma un milanese ci mette di più e un tedesco di Colonia forse non ci riuscirà mai. E se uno pensa che il problema derivi solo dal fatto che non si hanno gli occhi a mandorla, dovrebbe andare a parlare con quei dirigenti di un’azienda giapponese che, per non impazzire, hanno dovuto completamente ripensare i loro processi produttivi per far sì che una fabbrica in Thailandia funzionasse. Il fatto è che Mai pen rai è la forma verbalizzata di una precisa filosofia di vita, di un modo di intendere l’esistenza con la levità di chi pensa sia meglio sorridere anche di fronte alle avversità, di prendere le cose come vengono senza preoccuparsi eccessivamente di ciò che difficilmente è nelle nostre possibilità cambiare. È un po’ quello che gli inglesi definiscono, senza crederci minimamente, “take it easy”. A questa espressione si lega saldamente il concetto di sanuk, anch’esso di derivazione buddista, che significa “divertimento”, “piacere”, e i thailandesi sanno benissimo cosa è sanuk e cosa non lo è: passeggiare, chiacchierare con un amico, andare a una festa è sanuk, lavorare è mai sanuk. Non è che i thailandesi non vogliano lavorare, è solo che anche nel lavoro deve esserci un po’ di divertimento, di interesse, altrimenti la vita sarebbe scialba e priva di gioia. E allora perché non pensare a un viaggio che, senza dimenticare le spiagge tropicali e le meraviglie del mare, offra la possibilità di assorbire un po’ della filosofia thai, un “elogio alla lentezza” per dirla con Kundera. Si va a nord, dunque, e dopo una doverosa visita a Bangkok e ai suoi splendidi edifici, la strada porta a Ayutthaya, l’antica capitale. Lo scenario è emozionante. La città dei Buddha si trova su un’isola alla confluenza di tre fiumi, dove in un parco che è stato dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, si trovano alcuni dei templi più antichi e imponenti della Thailandia: il Wat Raja Burana, il Wat Phra Mahatat, il Wat Phanan Choeng e i tre grandi stupa del Wat Phra Sri Sanphet, il più bello. Il ruolo istituzionale è rappresentato dal Bang Pa In, la residenza estiva del Palazzo Reale. Più a nord si trova un altro parco protetto dall’Unesco, Sukkothai. Il nome significa Alba della Felicità e lo merita tutto perché inoltrarsi nella vegetazione fra statue del Buddha, laghetti screziati di ninfee e silenzio dona una pace interiore mai provata prima. Verso il confine con il Laos il paesaggio cambia. È un paesaggio quasi irreale, d’altri tempi: montagne azzurre, contadini isolati nel verde delle risaie, cieli mutevoli. Finché si arriva alla piana del Mekong, il Triangolo d’Oro, e lo sguardo si perde sull’infinito. A Chiang Mai, oltre a visitare il magnifico tempio Wat Phratat Doi Suthep, si può trascorrere qualche ora in un centro di meditazione trascendentale o, più prosaicamente, seguire un corso di cucina thai, uno di boxe thailandese o lasciarsi andare alle pratiche del nuad phaen boran, il massaggio tradizionale thailandese. Poi, non rimane che il mare di Koh Samui.

La terra degli elefanti
Se si osserva la Thailandia dall’alto balza subito agli occhi che la forma somiglia molto alla testa di un elefante. E forse non c’è un altro paese sulla Terra che abbia un legame così stretto con un animale. L’elefante qui non è solo legato spiritualmente al Buddha, al lavoro in foresta o, anticamente, all’arte della guerra, ma anche particolari risvolti di coesione nazionale. Si crede infatti che il destino di una reggenza regale sia intimamente connesso al numero di chang puak ospitati a palazzo: più sono più il sovrano assicurerà benessere e felicità. Cosa sono i chang puak? Sono i famosi elefanti bianchi di Thailandia, rari esemplari albini che i sovrani del Siam hanno in enorme rispetto. Tuttavia nemmeno in Thailandia la convivenza fra uomo e elefante ha portato a un’isola felice. Questo splendido animale rischia infatti l’estinzione e l’arretramento della foresta, il suo habitat naturale, non può essere compensato solo dall’istituzione pur lodevole di un Parco Nazionale. Per secoli l’elefante è stato impiegato per i lavori più pesanti e sottoposto a una grande pressione ambientale. Resta il fatto però che osservare il rapporto che si instaura fra l’animale e il suo conduttore – il mahout – desta una grande impressione, soprattutto nel rito del bagno, quando decine di elefanti si dirigono al fiume e, con grande soddisfazione, vengono innaffiati, lavati e strigliati dai loro piccoli padroni. Singolare è senz’altro una versione di Polo che si gioca solo in Thailandia e Nepal: due squadre di 4 giocatori che si affrontano sul campo con le stesse regole del Polo ma a cavallo di elefanti. Il torneo si disputa solo una volta all’anno nella cittadina balneare di Huahin, a 65 km a sud di Petchanburi.