Milano. Vivere la modernità
A metà degli anni ’60, in pieno boom industriale, Ornella Vanoni contrapponeva agli stereotipi sanremesi traboccanti della coppia cuore/amore una frase del tipo “Sapessi com’è strano sentirsi innamorati a Milano…” Il testo di Alberto Testa continuava poi con un non molto incoraggiante “Senza fiori senza verde, senza cielo senza niente…”. Il che non ha fatto che alimentare l’iconografia di una città grigia, fredda e priva di bellezza. Ma è proprio così poco attraente Milano? Certo, se la si considera col metro di città d’arte come Roma, Venezia o Firenze bisogna rispondere indubbiamente di sì: purtroppo della città di Ambrogio, Costantino o dei Visconti è rimasto davvero poco. L’ordinato reticolo del castrum romano si è dissolto nell’andamento a raggiera dell’impianto medievale e questo a sua volta ha ceduto il posto prima al pudore umbertino e poi alle stravaganze del post-moderno, lasciando di volta in volta in piedi le icone più rappresentative del suo passato: il Duomo, il Castello Sforzesco, il Broletto con la vicina Loggia degli Osii, Porta Romana, Porta Ticinese. Il resto l’ha rielaborato, riadattato, l’ha preso così com’era e trasferito da un’altra parte in ossequio a quell’idea tutta milanese che in sintesi riguarda la trasformazione della destinazione d’uso. Così la zona dei Navigli si accorda col trendy dei locali notturni o il neoromanico di San Babila con il sofisticato shopping di via Monte Napoleone. Nemmeno la casa della Vanoni, forse una delle più belle della città, progettata agli inizi del Novecento in stile liberty da Achille Manfredini in via Spadari, sfugge a questa regola: al suo interno si trovano opere dell’inquietudine contemporanea di Alberto Burri, Pietro Cascella, Arnaldo Pomodoro, Fausto Melotti e Alighiero Boetti. Ma è proprio la vocazione al riuso a costituire uno dei tratti più affascinanti di Milano e un itinerario che più di ogni altro ne fa comprendere l’articolazione è quello che si snoda lungo le zone degli ex impianti industriali. Un buon punto di partenza è l’area di Porta Genova. In via Tortona, oltre a sedi di agenzie pubblicitarie e atelier, al numero 54 si trova lo Spazio Ex Ansaldo. Dove negli anni Sessanta si fabbricavano locomotive e carrozze ferroviarie, oggi trovano posto il laboratorio di scenografia e le sale prova del Teatro alla Scala e vi si svolgono molti eventi del Fuorisalone. L’area è oggetto di un grande progetto per la trasformazione in polo culturale affidato all’architetto inglese David Chipperfield. Nei pressi del Parco Sempione, in via Pontaccio, c’è l’edificio dalla facciata liberty della Società dei trasporti Gondrand firmato dagli architetti Mazzocchi, diventato sede della casa di moda Ferrè dopo un intervento di ristrutturazione di Marco Zanuso. Più a nord si trova il Deposito ATM di via Messina in ferro, cotto e lucernai in vetro realizzato nel primo Novecento e ancora operativo (è il più grande di Milano) e, sempre in tema di Fuorisalone, La Fabbrica del vapore di via Procaccini. Il complesso merita un’attenzione particolare perché la sua storia è emblematica del nuovo corso della città. L’area, alla fine dell’Ottocento, ospita la Ditta Carminati, Toselli & C., che si dedica alla “costruzione, riparazione, vendita di materiale mobile e fisso per ferrovie, tramvie e affini”. Siamo in piena rivoluzione industriale e, con la conversione delle carrozze del trasporto pubblico dalla trazione animale a quella a vapore o elettrica, la fabbrica si espande velocemente. La produzione subisce una prima battuta d’arresto durante la Prima Guerra Mondiale: gli orari di circolazione del servizio tranviario si riducono, la richiesta di manutenzione e di nuove vetture scende e per di più il complesso industriale viene anche colpito da un bombardamento aereo. Le azioni della Carminati Tosetti risalgono dopo la guerra e nei dieci anni successivi raggiunge il suo culmine. La crisi arriva durante il fascismo. Nel 1935 la fabbrica chiude e inizia così un periodo movimentato nel quale nell’area si avvicendano e si svolgono le attività più disparate. La rinascita è alla fine degli anni Ottanta quando l’Amministrazione comunale decide di destinare gli edifici a polo della produzione culturale e artistica giovanile, un luogo dedicato alla ricerca, alla sperimentazione e all’innovazione. L’Amministrazione, infatti, dopo aver ristrutturato gli impianti salvaguardandone gli elementi architettonici originali, ha definito la tipologia dei possibili soggetti che vi si sarebbero insediati, riservandosi solo la facoltà di valutare i progetti presentati. Oggi la Fabbrica del vapore è uno dei luoghi più effervescenti e prestigiosi della creatività giovanile, in cui si confrontano e si scambiano esperienze micro-aziende a elevata specializzazione e start-up innovative in settori diversissimi e complementari. Design, musica, danza, fotografia, teatro, cinema, grafica: un laboratorio multiforme dove si mescolano nuovi linguaggi, tecnologie all’avanguardia e ricerca artistica. Non a caso alla Fabbrica del vapore vi si svolgono gli eventi più interessanti del Fuorisalone. È impossibile nominare tutti i luoghi che varrebbe la pena di visitare in questo percorso votato al rinnovamento in chiave futuristica degli spazi dell’archeologia industriale – le Officine del volo di via Mecenate ex sede della fabbrica Caproni, le Officine Leonardo Da Vinci nei pressi di San Siro dove venivano costruiti i dirigibili – ma in qualche dove si deve pur finire e forse è giusto che la scelta ricada sull’edificio della Triennale di via Alemagna, il tempio della creatività italiana. Oggi il complesso ospita anche un museo del design, il primo di questo tipo in Italia, e fonda la sua particolarità su una concezione innovativa: la successione ininterrotta e continuamente cangiante di nuove esposizioni sottolineata dalle due attrazioni fisse del Ponte di Michele De Lucchi e del Teatro Agorà di Italo Rota.
Il Salone Internazionale del Mobile
Dal 1961 è uno dei principali appuntamenti della Milano fieristica, forse il più importante, e non solo perché rappresenta il meglio del settore a livello internazionale ma anche perché, a partire dagli anni ’90, con l’introduzione dei Fuorisalone è diventato un vero e proprio evento dove moda, innovazione, design e glamour si intrecciano in un mix irresistibile. Quella del 2013 è l’edizione numero 52 e la parola d’ordine è innovazione, una vocazione che il presidente di Cosmit Claudio Luti rivendica orgogliosamente: “La chiave del nostro successo è rendere il Salone il luogo per eccellenza dell’innovazione. Per mantenere la leadership, la nostra esposizione dovrà continuare a essere sinonimo di novità e vetrina di assolute anteprime. Presentare prodotti nuovi, infatti, non solo può emozionare il pubblico, ma anche motivare la forza vendita”. In effetti quest’anno il Salone si presenta con una veste fortemente orientata ai nuovi media e ai nuovi canali dell’informazione. Confermata infatti la presenza sui principali social network e in rete (Facebook, Twitter, Flickr, il canale dedicato su YouTube e il blog ufficiale), il panorama si arricchisce di un profilo su Pinterest, l’incremento della rete professionale su Linkedin e il rilascio di una App dedicata disponibile per iPhone, iPad e i più diffusi dispositivi Android. Gli hashtag ufficiali Twitter su iSaloni@iSalo niofficial sono: #iSaloni #Euroluce #SaloneUfficio e #SaloneSatellite. Fra le novità di questa edizione, un’attenzione particolare alle soluzioni dedicate agli spazi di lavoro con le biennali Euroluce e SaloneUfficio dove, in particolare, l’architetto francese Jean Nouvel, già Pritzker Prize 2008, presenterà il progetto-evento “Ufficio da abitare”. Seguitissima si prevede anche la 16° edizione del SaloneSatellite, la manifestazione destinata ai progetti degli under 35 quest’anno dedicata al tema “Design e artigianato: insieme per l’industria”. Da non mancare naturalmente gli appuntamenti del Fuorisalone. Gli eventi coinvolgono praticamente tutta la città ma tradizionalmente le zone a più alta concentrazione sono Brera, Tortona, l’area della Fabbrica del vapore, Lambrate, Porta Romana, Porta Garibaldi e Corso Como.
Petra. La rosa del deserto
Città dei canyon, città di roccia, assurdità del deserto, regno delle fate: sono diversi gli epiteti che Petra si è guadagnata nei secoli, tutti però registrano il medesimo stupore di trovarsi di fronte a qualcosa di unico al mondo, a un miraggio scaturito da chissà quale strana magia. Certo, la Giordania non è solo Petra – e basterebbero a testimoniare questa verità i numerosi castelli che islamici e Crociati hanno eretto lungo tutta la fascia che si stende fra Amman e Aqaba, su tutti lo straordinario complesso di Karak, il principale teatro delle battaglie fra Cristiani e Salah al-Din – ma le sue credenziali sono molto più antiche. Stretta fra la valle del Giordano e i deserti dell’Arabia, solcata da quella grande via di comunicazione verso il Mar Rosso e il Sinai chiamata già in tempi remoti Strada dei Re, la Giordania ha sempre costituito una cerniera fra Mediterraneo e Vicino Oriente, un diaframma tra il mondo anatolico, la “Terra fra i Due Fiumi”, l’Egitto e il magma inquieto della costa; uno strano modo che ha scelto la Storia per traghettare, attraverso l’emporio siriano di Al-Mina alla foce dell’Oronte, la cultura di Gilgamesh, di Toth e del Dio delle Tempeste e trasformarla in quella straordinaria avventura di pensiero che è il razionalismo greco. Terra di transito e confine, dunque, entrata fin da subito nell’immaginario collettivo attraverso i racconti mitici sulle Miniere di Re Salomone – che recentissimi studi sembrano aver rintracciato davvero in antichissimi giacimenti di rame proprio al centro dell’altipiano desertico giordano – a cui Petra non ha fatto altro che fornire una patina tangibile di città opulenta e misteriosa nata dal nulla. Un miraggio, appunto. La cosa strana è che la magia da cui è sorta Petra ha davvero le sue radici in un miraggio, almeno se per miraggio si intende quell’evanescenza indistinta fatta di vapori e aromi che accende i sensi e scatena le passioni più sotterranee. La storia di Petra inizia infatti con i Nabatei, una popolazione nomade del deserto arabico dedita ai commerci sulle rotte carovaniere che permettevano agli incensi, ai profumi e alle spezie dell’Oriente di arrivare sulle sponde del Mediterraneo. I Nabatei si inseriscono nelle lotte per l’egemonia dei diadochi in Medio Oriente e si ritagliano un piccolo regno autonomo e inattaccabile grazie a un elaborato sistema di convogliamento delle acque piovane e a ingegnose tecniche costruttive. Del resto Petra si trova alla fine del Siq, un canyon molto stretto lungo più di un chilometro e mezzo con pareti che raggiungono anche i 200 metri d’altezza. Una gola buia e tortuosa dove è facile cadere in un’imboscata. I Nabatei fanno di Petra una città ricca e fiorente fino a che i soliti Romani non gli mettono gli occhi addosso e, si sa, quando ci sono di mezzo loro non c’è fortezza che tenga. Si racconta, infatti, che durante un assedio, al capo degli assediati che lo informava del fatto che la città aveva viveri per resistere dieci anni, il comandante romano per nulla impressionato rispose serafico: “Vuol dire che vi prenderemo all’undicesimo”. Nel caso di Petra non fu necessario aspettare tanto perché ai legionari di Traiano fu sufficiente chiudere il rubinetto dell’acquedotto: a quelle temperature senza acqua non c’è scampo. Nonostante la resa, Petra continuò a prosperare fino a che non perse la sua importanza strategica a causa dell’apertura di una nuova rotta commerciale per l’Oriente via mare e alla concorrenza di Palmira. Da allora si sono alternati periodi di parziale benessere e di rovinoso declino fino un oblio durato molti secoli: la riscoperta di Petra è infatti dei primi dell’Ottocento. Non fosse stato così, tuttavia, oggi non avremmo la possibilità di compiere un vero e proprio viaggio a ritroso nel tempo perché Petra, la città scavata nella roccia, è ancora lì, intatta e magnifica, e continua a svelare i suoi tesori nascosti, i più prestigiosi dei quali si trovano nei due musei di Petra, Al-Habis e il Nabateo, che si trovano in cima all’altura sovrastata dalla mole del Monastero. Ma è El Khasneh al Faroun, il Tesoro del Faraone (o Palazzo del Tesoro), con la sua imponente facciata colonnata scavata nella roccia il monumento più famoso di Petra. Il Tesoro, con la prospiciente Sacra Sala, si trova proprio allo sbocco del Siq ed è solo il preambolo di un racconto per il quale si rischia di non trovare le parole adatte. Il Siq si allarga e prosegue nella Strada delle Facciate: più di 40 tombe e case in stile assiro tutte scavate nella roccia, fra cui la Casa del Djinn (Casa dello Spirito). La strada sale ancora – occorrono circa due ore, ma sono due ore ubriacanti fatte di edifici, tombe, bagni, pitture rupestri, sale funerarie, templi, archi, colonne – fino al punto più alto Al-Madbah, l’Altura del Sacrificio, e il vicino Al-Deir, l’imponente Monastero, che in realtà è stato edificato tra il II ed il I secolo a.C. ed era destinato a essere la tomba del re Obodas I. Da vedere assolutamente le Tombe Reali – bellissime quelle dell’Urna, della Seta, la Tomba Corinzia, la Tomba Palazzo e la Tomba di Sextus Florentinus – il Teatro, che ampliato dai Romani poteva ospitare più di 6.000 spettatori, e la Chiesa Bizantina con i suoi splendidi mosaici perfettamente conservati.
Sotto le insegne di Lawrence d’Arabia. Il Wadi Rum
Forse non c’è altro luogo della Terra capace di suscitare emozioni paragonabili a quelle provate al cospetto del Wadi Rum, il deserto per eccellenza, il luogo dove vige la legge dei beduini e dove senza avvolgere sul capo la koufeyah non si sopravvive. Il Sahara ha un nome più altisonante, ma probabilmente deve la sua fama più al fatto di essere il deserto più esteso del Pianeta che alle sue caratteristiche. Il Wadi Rum ha invece un fascino particolare, quel certo non so che di ancestrale e mitico che fa di ogni essere umano stagliato contro il cielo notturno trapunto di stelle un enigma della vita. Una piccola angoscia che si risveglia all’alba, quando una palla di fuoco sorge enorme e tremolante dalle dune a incendiare il mondo e a strappare riflessi ogni volta diversi alle guglie e ai pinnacoli di arenaria e granito piantati come denti di giganti nella sabbia rossastra. Sembrerebbe che niente lì vi possa sopravvivere e probabilmente pensavano la stessa cosa i soldati di Bisanzio lasciati nei fortini a sorvegliare il nulla come tanti Giovanni Drogo del romanzo di Buzzati. Un nulla che un giorno si è coperto di una nuvola di cavalieri bianchi usciti dalle fauci del deserto come guerrieri dell’Apocalisse. Quel giorno, al grido di Allah akbar!, è iniziata la più travolgente conquista della storia: predoni nomadi che nel giro di un solo secolo, si sono ritrovati padroni di un mondo che andava dai Pirenei all’Indo. Oggi gli eredi di quei beduini vivono ancora nel Wadi Rum e, mentre il madraga delle loro donne – il lungo abito nero tradizionale ricamato con i colori che ricordano il deserto – fruscia sulla sabbia, offrono la loro proverbiale ospitalità e un caffè al cardamomo a chi ha deciso di capire perché del deserto ci si può perdutamente innamorare. Il punto di partenza più adatto per un possibile itinerario per il Wadi Rum è Aqaba, il porto sul Mar Rosso della Giordania. Di qui, seguendo il tragitto inverso compiuto da Lawrence d’Arabia per strappare la città ai Turchi, si prende l’Autostrada del Deserto in direzione Amman per circa una trentina di chilometri dove si svolta seguendo le indicazioni per il Wadi Rum. Ancora trenta chilometri e si arriva al Visitor’s Centre, tappa obbligata per ogni escursione diretta all’area protetta. I mezzi normali possono arrivare fino al Wadi Rum Village, da qui in poi si può scegliere solo fra due mezzi: il dromedario o il fuoristrada. Non è facile descrivere cosa non si deve mancare di vedere al Wadi Rum – la sorgente Ayn Abuaynah, il sito di Khazali con i graffiti preistorici, i due ponti di roccia di Um Fruth e Burda, la zona delle dune rosse chiamate rimal, il Tempio Nabateo – ma una cosa è certa: più che un tour frettoloso di un giorno conviene dormire almeno un paio di notti nei campeggi di tende beduine in pieno deserto. Poi, per chi ha visto almeno dieci volte il film con Peter O’Toole e Omar Sharif, non resta che prendere il coraggio a due mani e decidere per un trekking a dorso di dromedario lungo la carovaniera Aqaba-Dieseh: semplicemente indimenticabile.