Bangkok. Una città sull’acqua
Al Chao Phraya, il grande fiume che l’attraversa, Bangkok deve tutto. È, di volta in volta, una valvola di compensazione, una via di comunicazione, un canale di drenaggio, talvolta anche il mezzo per coprire un delitto o lo strumento per vendicarsi di un torto subito. Senza il Chao, Bangkok soccomberebbe al traffico dei suoi oltre sette milioni di abitanti in perenne movimento e soffocherebbe nella cappa umida e appiccicosa che periodicamente cala nei pressi del Golfo del Siam. Chao Phraya è insomma l’anima di questa città, il suo centro e la sua periferia, e non si può dire di averla conosciuta davvero se non ci si è inoltrati almeno una volta nell’intrico dei canali che costituiscono il suo particolarissimo tessuto connettivo e, allo stesso tempo, il suo sistema nervoso. Bangkok è una città dai mille volti, contraddittoria per vocazione, dove la pace e la rarefazione dei templi si scontrano con la frenesia e il caos di auto e veicoli. Capita talvolta che i mezzi già lenti a un certo punto si coagulino intorno al grumo causato da un innocente tamponamento e allora tutto si blocca e si cristallizza in un frastuono fatto di clacson e voci attraverso il quale si lanciano come schegge impazzite i tuk-tuk, quegli infernali aggeggi a tre ruote che i thailandesi, nel più puro e serafico spirito orientale, si ostinano a definire mezzi pubblici. Osservare tutto questo dal basso, scorrendo pigri le acque di un canale, dà la dimensione vera di una città incredibilmente affascinante, fatta di palazzi e wat sontuosi, statue colossali del Buddha e sordidi postriboli. La parte vecchia di Bangkok si estende sulla sponda orientale del fiume, tagliata in due dalla ferrovia; l’altra, quella occidentale, ospita la zona moderna, molto più ampia della prima, dove sorgono i centri commerciali e gli edifici della grande finanza. Fra fiume e ferrovia si trovano i palazzi e i templi più belli. Su tutti il Wat Phra Kaew, il Palazzo Reale, cuore del potere dell’antico Regno del Siam prima e della Thailandia poi. Il complesso include anche alcune delle bellezze imperdibili dell’arte thai come la Residenza Reale di Maha Monthien, l’imponente Chakri Maha Prasat, i Giardini di Siwalai, il Maha Prasat e il Tempio di Phra Keo, dove si trovano i più importanti simboli della Thailandia, come il Buddha Sdraiato o il Buddha di Smeraldo. Altri luoghi di grandissimo interesse sono il Tempio Arun, il Tempio Kaiayanimit, il Tempio Suwannaram, il Tempio Prayoonwong, il Wat Pho e soprattutto il Wat Traimit, che è il Tempio del Buddha d’oro, una colossale statua d’oro massiccio alta tre metri. Da non perdere un’escursione all’Isola di Rattanakosin dove si può visitare il Museo Nazionale Tailandese, uno dei più importanti dell’area del sud-est asiatico. Un’atmosfera fuori dal tempo si può viverla all’Oriental Hotel, un albergo di lusso dove rievocare i fasti coloniali della via delle spezie e della seta. Al mercato galleggiante del Wat Sai a Thonburi, nonostante l’ormai dilagante fama turistica che si è guadagnata, si entra in contatto con la Bangkok più autentica dove, con un po’ di pazienza e curiosità, si può passare dalle interminabili contrattazioni a un’amicizia sincera, la stessa affabilità che abbandonati i pregiudizi si riesce a conquistarsi vagando in barca nei klong o entrando in uno dei bar di Patpong. Di tutt’altro tenore lo shopping alla Silom Road, la via dei negozi di lusso nella zona moderna. Divertente, certo, ma niente a che vedere con i mercati serali di Pratunam, dietro Ratchaprarop Road, il mercato indiano di Pahurat o una passeggiata nel quartiere cinese.
Mangiare a Bangkok
La cucina thai è il prodotto dell’influenza di culture diverse. Alcuni cibi derivano dalla cucina cinese, altri risentono dell’influenza araba, in ogni caso su una cosa non si transige: ovunque si trova l’aglio, il peperoncino e un caratteristico miscuglio fatto di succo di limone, citronella e coriandolo fresco. A Bangkok, se si vuole mangiare i piatti della tradizione thailandese, conviene trovarsi un ristorante dalle parti di Banglamphu o Thewet. Piatti tipici sono: il Som Tum, una pietanza composta da tranci di papaya, noccioline e gamberetti, il Padtai, mix di vegetali con gamberetti, noccioline frullate e succo di limone, il Khao mun khai, riso fritto con pollo e una salsa nera tipica thailandese, il Krapao, un piatto composto da carne di maiale, pollo, manzo e frutti di mare accompagnato da basilico e riso, il Tomkahkai, il Tom yum kung, il Pha naeng, un piatto piccante preparato con manzo, pollo o maiale cotti in padella e accompagnati dal latte di cocco, il Gaeng-phet-gai, il Kaeng mus sa mun, composto di erbe, patate, ananas e noccioline con pollo o manzo conditi con aceto e aglio e il Kai phat met mamuang himmaphan, acaciù, chilli secco e pollo.
Napoli. I segreti di Partenope
Anche se si era quasi alla fine d’ottobre faceva ancora caldo nella piazza affollata. Dal mare, a un passo, arrivava un vento fresco carico di sale che gli scompigliava i capelli fini come fili d’oro. Cercavano disperatamente il blu i suoi occhi color fiordaliso, e tuttavia quel mare l’aveva vilmente tradito. Del resto tutti, in quello strano viaggio verso sud, prima o dopo l’avevano fatto: Giovanni Frangipane, signore di Torre Astura, era stato solo l’ultimo della serie. Gli unici sulla piana di Tagliacozzo a battersi per lui fino all’annientamento, lui imperatore scomunicato dei cattolici, erano stati i feroci guerrieri saraceni di Lucera, ma non erano bastati a fermare la carica degli 800 cavalieri pesanti che Carlo aveva tenuti nascosti su un fianco. Non si combatte così slealmente, pensava Corradino, ma che ne può sapere della guerra un ragazzo di appena 16 anni? Sulla Piazza del Mercato si abbatte l’ascia del boia e Napoli passa con tutto il Regno Normanno del Sud agli Angioini: finalmente il Papato ha ragione della odiata casata sveva degli Hohenstaufen e crede di aver coronato un sogno a lungo sognato, un disegno costruito su un falso documento che risaliva al tempo di un altro Carlo, re dei Franchi e imperatore quattro secoli prima, e che doveva convincerlo della legittimità delle sue pretese sul Sud Italia. Tuttavia, anche la tenacia plurisecolare della Chiesa-Stato doveva scontrarsi con l’anima profonda di Napoli. Perché Napoli non appartiene a nessuno, solo ai napoletani. Può essere presa, certo, ma non tenuta, e presto o tardi, come hanno scoperto Greci, Romani, Bizantini, Goti, Normanni, Angioini e Spagnoli, torna ai suoi cittadini, magari sotto un’altra bandiera, ma pur sempre ai napoletani. Probabilmente è proprio in questa consapevolezza la chiave per capire il fatalismo dei napoletani, il loro straordinario “tirare a campare”, ma non bisogna lasciarsi ingannare dalle apparenze: Napoli cela i suoi misteri a un occhio distratto, bisogna scavare se si vuole penetrarne l’anima. Così, invece degli splendori alla luce del sole – che sono tanti, bisogna dirlo – il viaggio a Napoli lo si compie sotto la superficie, quaranta metri sotto il traffico di piazza Municipio e il vociare di via Toledo. L’ingresso è a piazza San Gaetano e sono previste ogni giorno diverse escursioni; il percorso non richiede più di due ore ma in quelle due ore ci sono più di duemilacinquecento anni. Nel sottosuolo Napoli riannoda i fili della sua storia perché insieme alla fondazione greca si trovano i segni del XX secolo, quando grotte e cunicoli ricavati nel tufo giallo vennero usati dalla popolazione come ricoveri per sottrarsi a bombardamenti. Sulle pareti si trovano centinaia di scritte e graffiti: messaggi d’amore, maledizioni, pensieri e considerazioni sulla vita e la morte, nomi e caricature di personalità dell’epoca. La passeggiata è suggestiva perché avviene alla luce di lanterne e candele ed è tutto un rincorrersi di voci d’acqua e richiami dal passato. Tracce dell’insediamento di IV e III secolo, mura e templi del periodo ellenistico, le cisterne antiche e il complesso dell’acquedotto. Da un basso di via Anticaglia spuntano i resti del teatro greco, mentre sotto la bellissima chiesa gotica di San Lorenzo Maggiore si trovano, dulcis in fundo, i resti degli edifici della città greco-romana. il macellum, l’antico mercato, l’erario e un grande tratto di strada e, naturalmente, la chiesa paleocristiana del VI sec. antesignana dell’attuale.
La Cappella dell’Alchimista
Lui è Raimondo di Sangro, VII Principe di Sansevero, intellettuale, scienziato, alchimista, letterato, gran maestro Rosa Croce e, soprattutto, cultore dell’occulto. Di lui la gente raccontava che fosse una specie di stregone, un figlio del diavolo, uno che nessun potere, nemmeno quello del re o della Chiesa, riusciva a controllare. Sembra che il suo nome sia stato fatto anche durante il processo a Cagliostro, ma prove non ne esistono. Sia come sia, una visita alla Cappella San Severo, nel luogo che ospitava i laboratori segreti del Principe, è d’obbligo. Intanto è, già di suo, uno dei maggiori capolavori artistici di Napoli, ma il motivo della sua fama è all’interno. Fra le tante statue che si trovano lì, tre sono assolutamente stupefacenti e sono proprio quelle che, insieme alle “macchine anatomiche” di cui si dirà, hanno costruito la “leggenda nera” del Principe di Sangro. Al centro c’è la statua in marmo del Cristo Velato, opera dello scultore napoletano Giuseppe Sanmartino: sul corpo deposto e martoriato è steso un velo impalpabile pure di marmo che ancora oggi scatena le ipotesi più disparate. Si dice sia il frutto di una tecnica inventata dal Principe per marmorizzare i tessuti. Anche la seconda è realizzata nello stesso modo ma l’artista è un altro: è la statua della Pudicizia, di Antonio Corradini, e mostra una donna nuda completamente ricoperta da un velo trasparente. La terza è ancora più stupefacente, mostra un uomo che con l’aiuto di un giovinetto alato cerca di liberarsi dalla rete che l’avviluppa: l’opera è del genovese Francesco Queirolo e la rete è interamente in marmo. E le “macchine”? Qui si sfiora l’horror. Sono due esseri umani, un uomo e una donna, di cui sono rimasti solo gli scheletri e l’intero sistema circolatorio. Si dice che siano il frutto di un esperimento: ai due malcapitati sarebbe stata iniettata una sostanza che avrebbe mineralizzato il sangue. Non stupisce se ancora oggi, a Napoli, quando qualcuno lo nomina, c’è sempre qualcun altro che si fa furtivamente il segno della croce.