Mondo in Blue – The Blue Panorama Magazine set/ott 2014

Venticinque anni dall’altra parte del muro. 1989, la fine della Guerra Fredda

Giovedì 9 novembre. Sera. Appena poche ore prima il governo della DDR aveva modificato le norme che regolavano i viaggi all’estero. Era in realtà un estremo tentativo di chiudere una stalla piena di buchi dopo che tutti i buoi erano ormai vaganti in altri pascoli. Da qualche mese, infatti, il diaframma da superare non era più quella linea sbilenca di cemento armato irta di torrette e filo spinato che divideva due modi di intendere Berlino e il mondo, non era più necessario ricorrere ai più fantasiosi espedienti per eludere la sorveglianza dei Vopos o la stolida efficienza delle mine antiuomo: dopo le aperture della perestroika di Gorbaciov era sufficiente rifugiarsi in una qualsiasi delle ambasciate della Repubblica Federale oltre cortina o oltrepassare fischiettando il confine fra Ungheria e Austria. Quel muro, che come mentendo spudoratamente affermò il 15 giugno 1961 Walter Ulbricht, capo di Stato della DDR, “nessuno ha intenzione di costruire”, non aveva più alcuna funzione. Di colpo perse la propria identità, non serviva a nessuno: perché qualcuno doveva ancora prenderlo in considerazione? Il suo dissolvimento somigliò moltissimo a quello che decretò la fine dell’Impero Romano d’Occidente: un evento epocale, certo, gravido di conseguenze, ovvio, ma in sé una caduta senza rumore e senza gloria. Quella sera, con l’aria di chi si chiede “ma che ci faccio ancora qui?”, le guardie del muro si fecero lentamente da parte e dai due lati del muro le persone presero semplicemente ad abbracciarsi. E venne il marketing. Eh sì, perché dopo il fiume di Trabant verde-oliva cariche di masserizie dirette a Berlino ovest, la messa in soffitta delle bionde velociste della DDR in overdose di ormoni, le medaglie al merito del lavoro e lo scambio di spie al ponte di Glienicke, le inflessibili regole del libero mercato iniziarono a muovere le loro leve. Pezzi dipinti del Muro venduti come reliquie, Coca-Cola e Levi’s sugli scaffali, i mobili dell’IKEA, ma soprattutto la possibilità concreta che da quel momento un’Europa di popoli, se non ancora politica, potesse essere la prospettiva del nuovo millennio. Molte di quelle crisalidi non si sono ancora trasformate in farfalle, ma una cosa è certa: nonostante ne esistano ancora – al confine fra Stati Uniti e Messico, in Cisgiordania o a Cipro – i muri fondamentalmente non servono a nulla. Forse soltanto a appenderci quadri.

Bye-bye DDR
Molti sono i film che hanno avuto come sfondo la Berlino del dopo Muro. Uno in particolare spicca però per originalità e leggerezza. È Good Bye, Lenin! di Wolfgang Becker, una bellissima commedia del 2003. Il film racconta la storia di un giovane della Germania Est che, per nascondere alla propria madre la fine della DDR e proteggerla da uno shock dalle conseguenze fatali dopo l’infarto che l’aveva colpita nei giorni del crollo del Muro, ne combina di tutti i colori. Così, fra cacce serrate ad alimenti ormai introvabili e falsi reportage dove finalmente l’Occidente ammette di aver rubato la formula della Coca-Cola, Alex costruisce per amore un mondo che non è mai esistito. Dice a un certo punto del film: “Devo ammetterlo, ormai il gioco mi aveva preso la mano. La Repubblica Democratica che stavo creando per mia madre, assomigliava sempre più a quella che avrei potuto desiderare io”.

 

Giorgia. La voce della vita

Un’estensione vocale di tre ottave e mezzo, sette milioni di dischi, quattro Festival di Sanremo dove ha collezionato un primo, un secondo e un terzo posto, un Sanremo Giovani vinto alla grande – record tra le cantanti italiane della sua generazione per numero di settimane di permanenza nella classifica FIMI – un numero incalcolabile di premi e riconoscimenti: se sono i numeri quelli che bisogna andare a guardare per decretare il successo di un artista, allora Giorgia Todrani, romana, classe ’71, in arte solo Giorgia, il successo se lo è straguadagnato. Tuttavia Giorgia non è solo i suoi numeri. Quel timbro netto, riconoscibilissimo, duttile e eclettico, a volte appena venato da un’ombra di nostalgia e di calore umano, lo si affina con la tecnica, certo, è frutto del talento, non c’è dubbio, ma non può che sgorgare da una riflessione e un’esperienza profonde sul senso della vita. E da questo punto di vista la contabilità non c’entra: o sei innamorato della vita o non ci arrivi. Per questo ogni volta che l’ascolti, quella voce ti racconta qualcosa di nuovo. L’amore descritto al maschile di Fuori dalla mia finestra (un testo scritto per Alex Baroni), la malinconia struggente per una perdita irreparabile di Gocce di memoria (ancora per Alex, ma questa volta dedicato alla tragedia della sua scomparsa), l’orgoglio di È l’amore che conta, la levità scanzonata di Tu mi porti su. Ragazza spigliata, amante, mamma, amica: insomma, di percorsi di vita, come donna e come artista, Giorgia ne ha intrecciati parecchi. E non è un caso se oggi, in pieno tour col suo nuovo album che, peraltro, dopo poche settimane dall’uscita era già disco d’oro e poi di platino, sul suo sito ufficiale è graffita una frase che la riassume quant’altre mai: “È necessario morire per rinascere. Senza paura. (Almeno provarci!)”.

All’Auditorium insieme alle leggende della musica
Torna, in una forma completamente rinnovata, la rassegna Luglio Suona Bene di Fondazione Musica per Roma che, sotto le volte disegnate da Renzo Piano, porterà anche quest’anno il fior fiore della musica internazionale. Il giro del mondo non può che iniziare dalla Gran Bretagna, con i nomi di spicco dei Massive Attack, dell’icona vivente Robert Plant, voce dei Led Zeppelin, e dei Simple Minds. Gli USA sono ben rappresentati da Keith Jarrett, Suzanne Vega, Cat Power, Herbie Hancock e Wayne Shorter. Si prosegue con le atmosfere dark dei tedeschi Kraftwerk, quelle parigine di Yann Tiersen e i colori caraibici dell’Orquesta Buenavista Social Club. Impossibile nominarli tutti. E l’Italia? Fra gli altri, Avion Travel, Stefano Bollani e, c’era da chiederselo?, ovviamente Giorgia.