Campeche. Le foreste del regno di Chac
Quando gli Spagnoli arrivarono nel Nuovo Mondo si disinteressarono completamente dello Yucatán. A parte alcune guide e interpreti – tra cui la famosa Malinche di Cortez che, per aver aiutato i conquistadores a sconfiggere gli Aztechi, gode di un odio così profondo che ancora oggi viene ricordata in un intercalare da turpiloquio – di questo paese senza miniere d’argento, poco popolato, dal clima impossibile e che si poteva raggiungere solo via mare non sapevano che farsene. Dopo aver distrutto le città Maya principali si limitarono a occupare alcuni centri sulla costa che, ben presto, entrarono nelle mire di tutti i pirati e i bucanieri dei Caraibi. Quando il Messico si affranca dalla corona di Spagna il nuovo governo pensa che sia giunta l’ora di occuparsi di quel territorio dimenticato. Una pessima idea. I villaggi Maya hanno continuato a vivere secondo le loro tradizioni e non passa loro nemmeno per l’anticamera del cervello di considerarsi messicani e favorire gli hacendados. Il risultato fu una guerra lunga e sanguinosa, la cosiddetta “Guerra delle Caste”, che si è protratta fino a inizio del Novecento e nella quale i Maya Itzá vedevano avverarsi le profezie contenute nel Chilam Balam de Chumayel, il loro libro sacro. Della penisola, il Campeche, stretto fra lo Yucatán propriamente detto e il Chiapas, occupa la zona centrale affacciata sul Golfo. Mérida è probabilmente il primo contatto che si ha con questa terra, se non altro perché è qui che si arriva in aereo – l’altro aeroporto è a Campeche o più a sud, a Ciudad del Carmen – e perché è da qui che si possono impostare tutti gli itinerari per l’interno. La cittadina, dalla sonnacchiosa architettura coloniale, è però piacevole, vivace, e ha il più vasto e interessante mercato del Messico meridionale insieme a quelli di Oaxaca e San Cristóbal. L’interno della regione è sicuramente qualcosa che vale la pena visitare. Per farlo si può percorrere la “via corta”, più breve ma anche meno interessante, o la Ruta Federal 261, la “via ruinas”: entrambe portano a Campeche ma la seconda attraversa autentiche meraviglie. Il primo incontro è con Uxmal, una visione quasi irreale che si materializza in piena foresta. Uxmal era un grande centro cerimoniale dei Puuc dedicato a Chac, il dio della pioggia, come testimoniano le grandiose facciate del Quadrangulo de las Monjas, della Piramide del Adivino, della Casa de las Tortugas e del Palacio. Proseguendo a sud si incontrano le rovine di Kabah, Sayil, X-La’Pak, Labná, Hochob e Edzná: il paesaggio ha la ruvida bellezza della natura incontaminata. Al termine c’è Campeche. Di qui si può proseguire lungo la costa verso Ciudad del Carmen ma le spiagge più belle sono quelle fra Champotón e Sabancuy: sabbia bianchissima, acque turchesi, palme da cocco che quasi sfiorano la battigia. Un paradiso. Ma un paradiso ancora più stupefacente è però a nord, vicino a Mérida. Bisogna arrivare a Sisal e chiedere a qualche pescatore un passaggio per l’Arrecife de los Alacranes, la Barriera degli Scorpioni. Sono un paio di giorni di navigazione e ci si deve procurare un permesso, ma ne vale la pena: l’arcipelago è un sogno e l’acqua così trasparente che le centinaia di relitti delle battaglie fra galeoni – qualcuno dice oltre 250 – si possono vedere anche dalla barca. Se poi si è anche appassionati di immersioni, be’ è facile perdere completamente la testa.
Il sombrero Jipi
Probabilmente lo si conosce più col nome di Panama, ma è proprio lui: il cappello più straordinario che sia mai stato inventato. Il segreto è in una pianta, la Carludovica palmata, una palma dalle cui foglie si ricava una fibra sottilissima, l’Jipi appunto, che tessuta da mani abili si trasforma nel copricapo più famoso al mondo. La zona di produzione è un’area chiamata Camino Real fra Campeche e Mérida. I migliori vengono realizzati nella cittadina di Becal dove l’Jipi viene tessuto in cantine e grotte artificiali che assicurano condizioni ottimali di umidità e temperatura. Per riconoscere un vero sombrero Jipi bisogna controllare la quantità e la qualità della fibra impiegata. Un Panama degno di questo nome è leggero, sottile, elastico, flessibile e chiuso delicatamente in pugno deve tornare riprendere immediatamente la forma. Il colore poi non è paglia ma è quello della fibra naturale, fra il bianco e l’avorio.