Justin Drew Bieber. Il talento musicale formato 2.0
Potenza del web. Justin Bieber, classe ’94, deve buona parte del suo successo a Internet. Video pubblicati su YouTube, una discografia diffusa quasi esclusivamente attraverso iTunes e i canali di download digitale, un sito ufficiale e un blog: la consacrazione per il ragazzino canadese di Stratford arriva senza ombra di dubbio dal tam-tam della Rete. Potrebbe sembrare un fenomeno costruito ad arte, virtuale ed effi mero come molte delle cose che abitano il web e destinato a sparire altrettanto presto una volta che la novità cesserà di essere tale, con l’inizio della fine annunciata dall’interesse sempre più debole che gli algoritmi di Google gli rivolgeranno. Forse però non sarà così, perché il nostro Justin potrebbe costituire l’eccezione che conferma la regola. Ma chi è Justin Bieber? Nato nel Paese dei Grandi Laghi da padre canadese e madre franco-canadese, Justin dopo l’abbandono paterno rimane solo con la mamma Patricia “Pattie” Lynn Mallette. A dodici anni partecipa a una competizione canora a Stratford e l’anno dopo, spalleggiato dalla madre, inizia a pubblicare su YouTube cover di Usher, Chris Brown, Stevie Wonder, Justin Timberlake e Ne-Yo. Il fenomeno Bieber inizia a montare. Viene contattato prima dalla Rapid Discovery Media e poi dalla Island Records che lo mette sotto contratto. Con la collaborazione di artisti del calibro di Tricky e Usher, escono i primi quattro singoli che si piazzano immediatamente tra le prime quindici posizioni della Hot 100 canadese e tra le prime quaranta di quella statunitense; a novembre del 2009 pubblica il suo primo EP, My World. Da allora è tutto un susseguirsi di premi e riconoscimenti. Nel 2010 viene riconosciuto come miglior artista maschile ai Teen Choice Awards, agli MTV Video Music Awards, agli MTV Europe Music Awards nonché agli American Music Awards; quest’anno si è già aggiudicato un premio agli MTV Movie Awards. Una delle chiavi per capire il successo di Bieber, oltre alla caratura musicale, è nel suo porsi controcorrente rispetto all’opinione diffusa che si ha della sua generazione. Justin riflette sulla propria condizione, si interroga sul futuro, prende le distanze dal disimpegno e dalla superficialità nei rapporti e nei sentimenti. “Io non penso che tu debba fare necessariamente sesso con chiunque, – confessa – a meno che tu non la ami davvero quella persona”. Nono-stante la sua giovinezza, Justin sembra avere le idee chiare su molti temi e dimostra una disarmante maturità. “Il mio messaggio è che puoi fare tutto quello che vuoi se ci metti l’impegno.” – dichiara – “Sono cresciuto al di sotto della soglia di povertà; non avevo quello che avevano gli altri. Questo mi ha reso più forte e mi ha formato il carattere. Ora ho un’ottima media e voglio andare al college, voglio diventare una persona migliore”. Questo è Justin Bieber, che aggiunge: “Il successo? Bisogna star calmi perché lo show business è davvero folle ed è facile perdere la testa”. Testa che però lui pare davvero aver perso per Selena Gomez, anche lei cantante e attrice di grandissimo successo.
Tutti i numeri di Justin Bieber
Singoli
2009 – One Time
2009 – One Less Lonely Girl
2009 – Down To Earth
2010 – Baby (feat. Ludacris)
2010 – Eenie Meenie (feat. Sean Kingston)
2010 – Somebody to Love (feat. Usher)
2010 – U Smile
2010 – Pray
2011 – Never Say Never (feat. Jaden Smith)
2011 – That Should Be Me (feat. the Rascal Flatts)
Album
2009 – My World
2010 – My World 2.0
2010 – My Worlds Acoustic
2011 – Never Say Never – The Remixes
Cinema
Never Say Never, di Jon Chu (2011)
TV
CSI Las Vegas – Scena del crimine, (episodio Targets of Obsession nel ruolo di Jason McCann)
Libri
First Step 2 Forever (autobiografia corredata dalle fotografie di Robert Caplin)
Diego Della Valle. La democrazia del lusso
Fino a qualche decennio fa i contorni del lusso potevano essere definiti con assoluta precisione. Si trattava di oggetti costosi per manifattura e materiali, rari, esclusivi, quasi inaccessibili. Oggi il lusso ha cambiato pelle e uno dei protagonisti di questo cambiamento culturale è proprio lui, Diego della Valle, uno che con la pelle ha costruito uno dei fenomeni imprenditoriali più rappresentativi del Made in Italy. Si può dire anzi che, almeno filosoficamente, il Made in Italy porti la sua firma. Diego della Valle, infatti, ha fin dall’inizio creduto e lavorato su un’intuizione: la produzione italiana doveva rispecchiare le caratteristiche mentali, tradizionali e culturali degli italiani, ovvero coniugare il gusto per l’arte e la cura artigianale dei dettagli con le dimensioni quasi familiari delle aziende. Negli anni ’50 la strada era stata già battuta da un altro grande dell’imprenditoria, Adriano Olivetti, ma il declino della casa di Ivrea aveva fatto pensare che quell’esperienza fosse utopistica così come lo era stato il suo fondatore. Diego della Valle invece si è convinto che quella fosse un’idea giusta, a patto però di adeguarla ai tempi del marketing. Così, dopo gli studi in Legge e un breve soggiorno negli Stati Uniti, l’imprenditore mette mani all’azienda paterna di Casette D’Ete che era stata avviata ai primi del secolo scorso dal nonno Filippo. Siamo a metà degli anni Settanta e nel giro di pochi anni esploderà il fenomeno del Made in Italy che comincerà a camminare proprio con le scarpe Tod’s. È una vera rivoluzione. Il lusso non si identifica più con una classe sociale elitaria, non si affida più soltanto a connotati materiali, si ammanta di altri significati, diventa una categoria mentale legata allo stile di vita e al piacere personale, un concetto connesso più all’esperienza emotiva che all’ostentazione. E il mercato diventa trasversale realizzando quello strano ossimoro culturale che va sotto il nome di “democratizzazione del lusso”. Sull’onda del successo delle Tod’s, Diego della Valle lancia altri due marchi che replicano le gesta del primo: Hogan e Fay. Il resto è storia recente. Forbes stima il patrimonio di Diego Della Valle in circa 1,3 miliardi di dollari che, di par suo, non vuole saperne di riposarsi un po’. È consigliere nel polo Louis Vuitton Moët Hennessy, azionista di Piaggio, Bialetti e RCS, mentre nel 2009 acquisisce il 5,9% delle quote dei grandi magazzini di lusso americani Saks Fifth Avenue, diventando l’anno successivo il secondo azionista con il 7,13%. E tutto mantenendo la stessa filosofia e il medesimo piglio di un italiano innamorato dell’Italia e della sua originalità. “Non dobbiamo regalare a nessuno il valore del Made in Italy”, ha dichiarato recentemente: una sfida che quel bambino che dormiva rannicchiato sulle balle di pelle perché il loro odore sapeva di buono ha preso molto sul serio.
Il restauro del Colosseo
Il Metauro è un fiume nei pressi di Fano. Sant’Elpidio non è molto distante, appena una sessantina di chilometri, ma quel fiume è stato importante nella storia di Roma e in qualche modo c’entra con la nostra storia. Al Metauro venne sconfitto il secondo grande esercito cartaginese che aveva passato le Alpi. Il progetto di Asdrubale era di ricongiungersi col fratello Annibale e stringere in una morsa mortale l’Urbe, ma lì, nelle Marche, la minaccia punica si infranse contro la genialità di un giovane console romano, Claudio Nerone, e Roma fu salva. Oggi non è l’intera città a correre un grave pericolo, ma uno dei suoi simboli più rappresentativi, e la salvezza incredibilmente viene ancora dalle Marche, da Sant’Elpidio appunto, perché il Gruppo Tod’s finanzierà il restauro del Colosseo. Il progetto – da 25 milioni di euro – è imponente perché gli interventi di restauro riguarderanno sia il prospetto settentrionale sia quello meridionale, gli ambulacri, gli ipogei, la sostituzione dell’attuale sistema di chiusura dei fornici, la messa a norma e l’implementazione degli impianti e la realizzazione all’esterno dell’edificio di un centro servizi e accoglienza. L’iniziativa però è tanto più significativa perché stabilisce un precedente importante: il restauro non prevede infatti lo sfruttamento dell’operazione a fini pubblicitari o commerciali, ma nasce dalla convinzione che investire nel Made in Italy anche in ambito culturale, valorizzando lo straordinario patrimonio storico e artistico del nostro Paese, sia il modo migliore per renderlo più competitivo. Una filosofia che, come dimostra la sua storia, Diego della Valle ha fatto propria fin dall’inizio della sua avventura imprenditoriale.
Sharm el Sheikh. Dove la natura regna sovrana
Un triangolo perfetto inserito fra Asia e Africa, fra il golfo di Aqaba e quello di Suez. Porta, via d’accesso, vita che scorre, territorio strategico da difendere a ogni costo. Il ruolo di ponte naturale fra due mondi il Sinai l’ha sempre avuto, anche dopo il taglio di Suez, come dimostrano le invasioni dei Popoli del Mare, il passaggio delle armate di Ramses II dirette a Qadesh, il ritiro di Mosè per ricevere le Tavole e, più recentemente, la Guerra dei Sei giorni. Tuttavia, come sempre accade, le brame di potere degli uomini si infrangono contro l’energia vitale delle donne, quell’inno alla bellezza che tutto stempera, tutto inlanguidisce, e lì nel punto esatto dove ha origine la storia del mondo secondo Courbet, all’estremità meridionale del Sinai, sorge Sharm el Sheikh. Oggi a Sharm el Sheikh ci si va per il mare, per quel mare dai colori cangianti che mutano oltre la barriera corallina in un blu profondo. Acque calde, una vita che prorompe da ogni anfratto delle rocce: pesci angelo, pesci pagliaccio, pesci leone, murene, pesci napoleone, pesci farfalla, attinie, anemoni, cernie, e su ogni cosa il rumore della roccia triturata dal lavorìo incessante del tarlo dei coralli: il pesce pappagallo. Il Mar Rosso qui è insomma il paradiso per gli amanti dello snorkeling e del diving, e un po’ ovunque si trovano centri che offrono escursioni sottomarine o, per chi proprio non ce la fa a trattenere il respiro, gite su battelli dal fondo di cristallo. Da non perdere, a questo proposito, la visita alla riserva marina di Ras Mohammed, un caleidoscopio impressionante di colori guizzanti e toni di blu liquido. A Sharm el Sheikh la vita scorre lenta fra mare, sole e spiagge dalla sabbia bianchissima, e a sera mille locali dove la notte si ammanta di oriente. E per chi sente il richiamo del deserto e l’inquietudine che deriva dal mistero qui può trovare anche altro. Alle spalle di Sharm si estende un territorio assolato, arido, assolutamente straordinario se visto con gli occhi dell’anima. La zona di Serabit el Khadim è uno dei centri archeologici più importanti al mondo, ai limiti dell’area protetta di Santa Caterina, ai piedi del monte Sinai. Qui sorge il Monastero di Santa Caterina, il più antico monastero cristiano ancora esistente. Risale al VI secolo dopo Cristo e, secondo solo alla Biblioteca Vaticana, conserva la più importante e meglio conservata raccolta di manoscritti copti. Il paesaggio è impressionante. Il complesso si trova isolato alla fine di un canyon; intorno lo scenario unico dei deserti rocciosi d’alta quota. Da Sharm è possibile organizzare escursioni e trekking in jeep o a dorso di cammello, tuttavia se si vuole evitare di incappare nella più smaccata delle finzioni è meglio arrivare in auto o autobus al villaggio di EI-Milga e lì prendere guide beduine per escursioni al monte Abbas Pascià, la Valle Blu e Wadi Arbaeen. E il giorno dopo, cullati dalle acque calde e accoglienti del Mar Rosso, ripensare con nostalgia a uno spicchio di deserto immenso che conserva gelosamente tutte le risposte del mondo.
Velluto blu e trame colorate. La barriera corallina di Sharm el Sheikh
Se si tralasciano alcune zone dell’Indonesia, la sola che può insidiare per importanza il primato di Sharm el Sheikh è la grande barriera corallina australiana. Uno dei motivi che giustifica l’esistenza di questo ecosistema fra i più rari al mondo è costituito dal suo microclima. Questa parte del Mar Rosso, infatti, è interessata da due stagioni monsoniche distinte e, per via degli stretti bracci di mare – quello di Suez e quello di Aqaba – che delimitano la penisola del Sinai costituita da terreni aridi e semi-desertici, ha una concentrazione di salinità elevatissima causata dalla veloce evaporazione. La barriera si estende per circa 2.000 chilometri e vanta una straordinaria biodiversità – oltre 1.000 specie di pesci e circa 200 di coralli – ma è un mondo in pericolo. Non è solo l’innalza-mento della temperatura climatica globale a mettere a rischio la sopravvivenza degli polipi che formano la barriera, c’è anche l’ingerenza umana diretta; e se la prima richiede interventi su vasta scala, la seconda sarebbe facilmente eliminabile: basterebbe usare un po’ più di rispetto e rinunciare a staccare pezzi di corallo per inutili souvenir.
Istanbul. La porta sul Bosforo
Da Isidoro di Kiev al reverendissimo signore Bessarione, vescovo di Tuscolo, Candia, 6 luglio 1453: “Il giorno 29 del mese di maggio da poco trascorso, al sorgere del sole, quando i suoi raggi colpivano i nostri soldati negli occhi, i turchi investirono la città per mare e per terra e attaccarono il settore delle mura presso la Porta di San Romano. La scalata da quella parte era facile perché era stata buttata giù e quasi diroccata completamente dalle bombarde, per cui fu facile ai nemici irrompere nella città non trovandosi nessuno lì in grado di contrastare l’Impero dai nemici”. Inizia così il resoconto di un occidentale di Bisanzio, un religioso di rango ancora scosso dagli eventi dell’epilogo della vicenda più traumatica vissuta da Costantinopoli, la Nuova Roma, il Faro del Mondo: la presa della città da parte delle armate turche di Mehmet II, Maometto il Conquistatore. Da quel giorno, il 29 maggio 1453, Costantinopoli cessa di far parte della sfera d’influenza occidentale e muore definitivamente l’Impero Romano. Del resto Roma e Costantinopoli hanno sempre vissuto storie parallele fin da quando Costantino diede a Bisanzio il suo nome trasformandola nella capitale dell’Impero d’Oriente. I Goti, nel 378, infliggono ai Romani la prima ferita mortale a Adrianopoli spazzando via l’esercito dell’imperatore Valente; meno di cento anni dopo, nel 476, Odoacre depone l’ultimo imperatore romano d’occidente; nel 1453 Costantinopoli cade e diventa la capitale dell’Impero Ottomano; nel 1527, di nuovo in maggio, Roma viene assediata e conquistata dai Lanzichenecchi di Carlo V. Storie simili di città gemelle. Del resto Istanbul, già Costantinopoli, già Bisanzio, non si potrebbe capire senza assorbire insieme la sua anima greca, il suo volto romano e la sua presenza ottomana. Il fascino di questa città è, come spesso accade, nel suo essere luogo di confine, territorio di amalgama, luogo dove le diversità si fondono, i contrasti si esaltano in una nuova via. Qui si incontrano due continenti, due culture, due mondi, occidente e oriente, che si sono combattuti per secoli e che oggi sono uniti dal ponte sul Bosforo. Quasi una metafora che il sole calante ammanta di malinconia e profondo struggimento. Un sottile malessere che presto si stempera girovagando nei vicoli vocianti della città vecchia, l’antico quartiere di Fatih, fra botteghe, caffè, locali e piccoli ristoranti dove riparare dal sole e godersi un tè alla menta. Poco lontano il Gran Bazaar, una città nella città, mille negozi che dimorano sotto le arcate e si dipanano nel groviglio dei vicoli. Qui perdersi sarebbe un buon modo per ritrovarsi. Un altro, forse migliore del primo, sarebbe provare il tempo rallentato di un vero hammam. Luce che filtra dall’alto, gocciolio dell’acqua, vecchi muri romani e panche di marmo, e su ogni cosa la visione stentata delle forme diafane che si materializzano nel vapore, e mani esperte di secoli a seguire i percorsi segreti del corpo. Il più suggestivo è sicuramente quello di Çemberlitas, un edificio la cui architettura risale al 1500. L’architettura è in fondo la vera chiave di lettura per Istanbul. La Moschea di Süleymaniye con i suoi quattro altissimi minareti; il Palazzo Topkapi, l’antica residenza del Sultano, la Sublime Porta, già Palazzo degli imperatori bizantini; Santa Sofia o Ayasofya, prima chiesa cristiana, poi moschea e oggi museo; la Moschea Blu, quella di Rüstem Pashà e la Moschea Ortaköy; il Quartiere genovese di Galata sul Corno d’Oro. Da non perdere inoltre il Museo dell’Archeologia e il Museo dell’Oriente Antico che conserva collezioni sumeriche, babilonesi e ittite. Tuttavia, se si vuole davvero arrivare fino all’essenza di questa città, bisogna visitarla a maggio, nel periodo di fioritura delle rose, quando il loro profumo si spande ovunque, dolciastro e penetrante. Allora, con un brivido, può capitare davvero di vedere materializzarsi all’improvviso la figura imponente e terribile di un feroce giannizzero e di tornare indietro nel tempo a quella luminosa e tragica mattina di un martedì di maggio, anno domini 1453.
Le leggende del Corno d’Oro
Sono molti i misteri che ancora custodisce la città. Alcuni di questi si riferiscono proprio al 29 maggio 1453. Quella mattina, una folla di fedeli si era raccolta tremante nella chiesa di Santa Sofia per implorare la grazia e scampare alla rovina. Si racconta che quando i turchi fecero irruzione all’interno, il sacerdote che stava officiando la messa riuscì a mettere in salvo se stesso e il sacro calice sparendo dietro una parete che si era improvvisamente aperta alle sue spalle; agli sbigottiti soldati il religioso avrebbe promesso di tornare per terminare la messa quando Costantinopoli sarebbe tornata cristiana. Un’altra leggenda riguarda Costantino XI, l’ultimo imperatore. I giannizzeri stanno sciamando all’interno della mura, i genovesi di Giustiniani, nella confusione generale, fuggono non si capisce bene perché, condannando così la città. L’unico che resiste alla Porta di San Romano è lui, Costantino, che a cavallo e con solo tre compagni si getta sugli assalitori. La storia racconta che Costantino non morì, ma che lui e la sua cavalla araba divennero di marmo. Da allora, di giorno la statua rimane celata nei sotterranei della città, ma durante la notte si anima e ancora oggi, se si è fortunati, si può vedere l’ultimo difensore di Costantinopoli cavalcare a spada sguainata menando fendenti che strappano scintille alle armi degli Infedeli.