Thailandia. L’Oriente che affascina
Se è vero che un Paese, una cultura, si capisce solo a tavola, se insomma è vero che siamo ciò che mangiamo, allora forse questo è uno dei pochi modi per arrivare all’essenza della concezione thai del mondo e della vita. In Thailandia, infatti, è enormemente più importante la preparazione della materia a cui si applica, ha più valore la forma che il contenuto, più meritevole di attenzione l’aspetto piuttosto che l’essenza. Può apparire del tutto superficiale un atteggiamento che si preoccupa così tanto dell’apparenza a scapito della sua natura, ma quando ci si trova di fronte a piatti che somigliano a delle vere e proprie opere d’arte e, alzando un poco la testa, si prova a fare dei confronti con le decorazioni dorate di un tempio che si staglia poco più in là, allora le cose cambiano e ci si accorge con stupore che la superficialità è stata solo nostra e che forse in Thailandia non ci si preoccupa della materia solo perché questa è già eccellente: non si può fare altro che migliorarla con la creatività. E cambiando prospettiva si arriva anche a fare scoperte davvero sorprendenti. Magari decidendo di scegliere un mezzo inusuale come il treno. È primo pomeriggio a Bangkok. Il sole strappa lame dorate dalle guglie del Wat Phra Kaew, il Palazzo Reale; negli occhi ancora l’imponenza del Buddha d’oro del Wat Traimit. Piccoli microcosmi galleggianti solcano pigri le acque del Chao Phraya in cerca di chissà quali verità e tu sei qui, nell’atrio di un albergo che odora di legno, a chiederti se per caso non hai sbagliato epoca, se per qualche strano motivo sei stato catapultato dalle bizze di un dio capriccioso nelle atmosfere coloniali di “L’amant” di Marguerite Duras o forse, e solo per quell’ineluttabile senso di inutile dispendio che è l’amore, in “Occhi blu, capelli neri”. Un inserviente gentile, con quella gentilezza raffinata che fuori d’Oriente definiresti con fastidio solo stucchevole affettazione, ti riporta al presente: sei all’Oriental Hotel di Bangkok, ti stanno dicendo che fra poco sarai alla Hualampong Station e hai l’esatta percezione di stare per partire per il viaggio della vita. Il treno si chiama The Eastern and Oriental Express ed è un sogno futurista fatto di arredi, tappezzeria, metallo, cuoio, legno, cura e eleganza che per sei giorni ti chiamerà per nome e che, per sei giorni, metterà te al centro dell’universo. Il riferimento è agli anni ’20, agli abiti color ecru, al lusso essenziale di Chanel, al foxtrot e al Grande Gatsby, alle sigarette turche, alle gonne corte e ai capelli lucidi di brillantina ma la meta non è Istanbul, è la giungla, i templi Khmer del basso Mekong, i villaggi al confine col Laos, bufali e risaie, le sete di Prasat Sikhoraphum, elefanti e gibboni nel Khao Yai National Park. Il tour si chiama Epic Thailandia e da Bangkok vi porta fino a Chiang Mai, nel nord, ma di itinerari ce ne sono diversi altri. L’Eastern and Oriental Express, infatti, fa parte di un circuito esclusivo di treni di lusso il cui capostipite altri non è che l’Orient Express di Agatha Christie e che ora annovera anche l’Hiram Bingham nel Perù degli Inca e il Northern Belle in Gran Bretagna. E così come col Venice-Simplon Orient Express potete decidere di partire da Parigi, attraversare i Balcani e arrivare in Turchia o prendere il treno a Venezia e dirigervi in Polonia, l’Eastern and Orient Express può portarvi fino a Kuala Lumpur o a Singapore. È insomma un viaggio in cui il mezzo diventa viaggio esso stesso e dove il lusso diventa un elemento essenziale, assolutamente irrinunciabile. Certo, poi c’è il mare di Phuket, le spiagge di Patong, Karon e Kata dove la foresta tropicale sembra aver ingaggiato un guerra di colori col mare, le palme e le trasparenze di Ko Samui, dove a Hat Chaweng, Hat Lamai, Mae Nam, Bo Phut o Big Buddha capisci perché il solo aggettivo riconosciuto all’Eden è quello di perduto, ma in aereo, tornando alla quotidianità di sempre, sarà probabilmente una l’immagine che prenderà possesso prepotente della vostra mente: l’indulgere itinerante in un profluvio di pietanze colorate mentre fuori dal finestrino fugge inesorabile e violento il verde profondo della foresta pluviale.
La cucina thailandese
La cucina thai, visto che risulta il prodotto dell’influenza di culture diverse, è ricca di sapori e tradizioni. Alcuni cibi derivano dalla cucina cinese, altri risentono dell’influenza araba, in ogni caso, anche con notevoli differenze fra regione e regione, l’uso di aglio, peperoncino e di un caratteristico miscuglio di succo di limone, citronella e coriandolo fresco è comune un po’ ovunque.
Piatti tipici
Som Tum: pietanza composta da tranci di papaya, noccioline e gamberetti
Padtai: di solito è un mix di vegetali con gamberetti, noccioline frullate e succo di limone
Khao mun khai: riso fritto con pollo e una salsa nera tipica thailandese
Krapao: piatto carne e pesce (maiale, pollo, manzo, frutti di mare) accompagnato da basilico e riso
Tomkahkai: piatto preparato con erbe, limone, funghi, pollo e latte di cocco
Tom yum kung: è una zuppa composta da erbe e pollo o frutti di mare a scelta
Pha naeng: piatto piccante preparato con manzo, pollo o maiale cotti in padella e accompagnati dal latte di cocco
Gaeng-phet-gai: zuppa di carne e latte di cocco
Kaeng mus sa mun: erbe, patate, ananas e noccioline con pollo o manzo conditi con aceto e aglio
Kai phat met mamuang himmaphan: acaciù, chilli secco e pollo
Bahamas. Alla corte di Barbanera
Uno dice Bahamas e la prima immagine che gli si affaccia alla mente è una spiaggia bianchissima, il verde delle palme che svettano sull’intrico della giungla e un mare che da color del latte prende via via più confidenza e passa, toccando ogni gradazione, dal turchese al cobalto. Così, desta un po’ di sensazione che il primo europeo a metterci piede ne abbia sottolineato solo una caratteristica legata alla navigazione: “isole dalle acque basse” le definì. Certo, lui di nome faceva Cristoforo Colombo e di mestiere era marinaio, ma ci si chiede come questo piccolo lembo di paradiso non abbia fatto breccia anche nello spirito pratico del più intransigente fra i genovesi. Il nome a queste isole tuttavia gli è rimasto, perché Bahamas non è altro che la corruzione del termine spagnolo “baja mar” che significa appunto “mare poco profondo”, una caratteristica che avrà conseguenze importanti per la storia dell’arcipelago. Più che un gruppetto di isole, infatti, le Bahamas sono un vero e proprio arcipelago che, in un’area tutto sommato ridotta, annoverano oltre 700 isole: una sorta di collana di perline che dall’Atlantico settentrionale si stende fino quasi a lambire le coste della Florida. È difficile navigare da queste parti. L’arcipelago è costituito da una piattaforma con un insieme di rilievi affioranti con fondali che arrivano anche a poche decine di metri, separati da fosse oceaniche molto profonde. Il risultato è un fitto reticolo di canali fra isola e isola, dove è facile arenarsi. È però anche una via obbligata: le navi che provengono dal continente americano devono passare per forza di qua. Le Bahamas diventano allora il luogo ideale per tendere agguati e imboscate, un po’ come le gole montane, solo che qui i briganti hanno un altro nome: si chiamano pirati. Così, immaginate di essere sulla tolda di un galeone spagnolo. Alla partenza è stato fatto tutto il possibile: la sola strategia praticabile contro un branco di lupi è il convoglio, non restare isolati, navigare in gruppo. Ma manovrare in questo tratto di mare senza la forza propulsiva dei motori non è facile, si perde contatto per un nonnulla, la notte è buia e il vento incostante. E all’alba ti accorgi di essere solo. Comincia a far caldo e i vestiti sotto l’armatura cominciano a inzupparsi di sudore, il moschetto è pesante, ma per fortuna tutto è calmo, non si vede anima viva: la chiglia fende acque turchesi, a dritta una striscia di sabbia candida. Forse l’hai scampata. E mentre lo pensi un rumore assordante squarcia l’aria e fa esplodere in una miriade di schegge il timone: da dietro una scogliera si materializza sinistro uno strumento di morte galleggiante che sventola insegne nere. In coperta, immenso e feroce come un demone dell’inferno, c’è Edward Teach, detto Barbanera: ha dato fuoco alla treccia di canapa che ha fissato alla barba e tu sai che non tornerai più a casa. Fra la fine del ’600 e i primi del ’700, per più di quarant’anni, Andros, Grand Bahama, le Abaco, New Providence, Eleuthera, Cat Island, Long Island, San Salvador, Exuma, Crooked Island, Acklins, Mayaguana e Great Inagua sono state un regno retto da gente che rispondeva al nome di Barbanera, John Rackham, Calico Jack, Henry Morgan, Anne Bonny e Mary Read. A Nassau, dopo aver assorbito sole e mare per tutto il giorno in una qualsiasi delle straordinarie spiagge di una qualunque isoletta delle Bahamas e prima di consegnarsi alla luminosa sera del Tropico del Cancro, forse sarà davvero il caso di fare una visita al The Pirates of Nassau Museum.
A tavola
Piatto forte delle Bahamas è, inutile dirlo, il pesce. Frutti di mare, aragoste e granchi, soprattutto. Una vera specialità da queste parti è il conch o strombo, un mollusco marino che i bahamiani preparano in molti modi diversi: crudo – con succo di lime e spezie – fritto, in una zuppa piccante, cotto al vapore. Anche il pesce fresco è molto rappresentato. Una tipica preparazione è il pesce bollito con grits (una sorta di semolino) oppure in umido, con sedano, cipolle, pomodori e varie spezie. Quasi ogni pietanza viene accompagnata da piselli tropicali gialli e riso, il famoso “peas and rice” caraibico, e particolarmente gustose sono anche le zuppe di carne, prevalentemente maiale e pollo, come il “souse”. Come bevande birra, acqua di cocco e l’immancabile rum.