Mosca. La Terza Roma
Che città è Mosca? Davvero è solo adunate oceaniche, Armata Rossa e colbacchi di pelo? Davvero è solo il regno del Generale Inverno che, oltre ai Cavalieri Teutonici e alle truppe della Wehrmacht, ha infranto anche i sogni di conquista di un genio come Napoleone? Davvero è ormai solo il ricordo sbiadito di quella passata grandezza che negli anni della “cortina di ferro” teneva il mondo col fiato sospeso? Per avere una risposta a queste domande bisogna attendere il tramonto di un pomeriggio terso con poche nubi e fare una passeggiata lungo la Moscova. Non importa se sugli argini o su un ponte, l’importante è che siano solo i passi a scegliere direzione e ritmo, non la decisione di arrivare da qualche parte. Capita, a un certo punto, senza sapere bene perché o da dove si sia sprigionato un ordine così perentorio, che ci si debba fermare e che lo sguardo attratto da chissà quale forza misteriosa si perda su un punto preciso del fiume che, immobile, è diventato ormai uno specchio di metallo liquido scintillante di minuscoli aghi dorati. È allora, con una voce che sembra scaturire dalla notte dei tempi, che Mosca racconta la sua storia. E la storia narra di un piccolo villaggio su una collina abitato da genti che vengono da un paese dove il sole non c’è quasi mai e che con barche che sembrano gusci arcuati scendono il corso lento dei fiumi per arrivare dove il sole c’è quasi sempre e dove le città splendono d’oro, l’aria profuma di spezie e di incenso e le donne hanno occhi scuri come vetri di lava. Commerciano pelli, ambra e avorio ma più spesso arrivano con le armi e prendono senza pagare. Qualcuno rimane da quelle parti, nella Guardia Variaga di Costantinopoli, a fare quello che sa fare bene fin dalla nascita, ma qualcun altro torna in quel villaggio sulla collina che costeggia il fiume color del metallo, e porta indietro molto più che oro, sete e donne dagli occhi di lava: porta un’idea, un desiderio, la visione di trasformare un villaggio in una città, un pirata in un musicista. È in quel momento che nasce Mosca, la Nuova Roma, la città cinta di mura che ha un grande fiume e sette colli, che usa lettere greche per scrivere una lingua senza alfabeto, che innalza basiliche e cupole così piene di colore da sembrare mosaici bizantini e che chiama C’zar il suo re perché Cesare in slavo si pronuncia così. Poi arriva Majakovskij e l’immaginazione senza freni del futurismo russo, la razionalità del costruttivismo e il liberty della metropolitana più bella del mondo, la grafica dei soviet e la grazia dei balletti del Bolscioj. Contraddizioni? Esattamente. È per questo che nella Piazza Rossa, al Cremlino, insieme alla Cattedrale di San Basilio c’è il mausoleo della salma di Lenin venerata come una santa reliquia, che al Museo delle Belle Arti Pushkin convivono in armonia il Tesoro di Micene, Picasso, Chagall, Monet, Guido Reni, il Guercino e Canaletto, che i Magazzini Statali Gum si specchiano nei grattacieli di vetro della Russia post-comunista, che dai palazzoni alti e grigi di Tverskoy si vedono le cupole bizantine delle chiese, che dal Palazzo della Lubyanka dove tramavano gli agenti del KGB si ascoltino le nenie del rito ortodosso della Cattedrale di Cristo Salvatore. Contraddizioni, insomma, ed è proprio questo il segreto che custodisce gelosamente un gioiello come Mosca: non fosse così, per quale ragione al mondo il discendente di un barbaro guerriero del Nord si sarebbe innamorato alla follia delle Uova di Fabergé?
La campana dello Zar
Se Carlo VIII di Francia invece di mostrare i muscoli davanti alle mura di Firenze l’avesse fatto fuori le porte di Mosca, forse avrebbe avuto più successo. In effetti, quando alle richieste esose del re i fiorentini di Pier Capponi minacciarono di rispondere alle trombe del suo esercito con le campane cittadine della mobilitazione generale, Mosca pur avendo la campana più grande del mondo al più avrebbe potuto suonare solo un campanello. Il problema, infatti, è che la grande campana di Mosca, a causa del distacco di un grosso pezzo dal corpo principale ancora in fossa di fusione, non ha mai suonato neppure un rintocco. È lì, a terra, vicino al campanile di Ivan il Grande al Cremlino, bella come nessun’altra, perfetta in tutto ma malinconicamente muta. I russi, tuttavia, devono avere uno spiccato senso dell’umorismo perché a fianco della campana si trova anche lo Tsar Pushka, l’obice più grande del mondo: più di un metro di diametro, lungo fino a cinque e del peso di oltre 38 tonnellate. Certo, nulla a che vedere con i numeri della Campana dello Zar, che di metri ne misura 6 sia in altezza che in diametro e un peso che arriva a oltre 200 tonnellate. Pare però che, diversamente dalla campana, lo Tsar Pushka almeno qualche colpo l’abbia sparato. Il condizionale però è d’obbligo, perché i proietti per esserci ci sono e sono posizionati accanto al cannone, solo che risultano un po’ troppo grandi per la sua bocca da fuoco. Di nuovo una gigantesca burla?