Mondo in Blue – The Blue Panorama Magazine lug/ago 2014

Chiapas. A tavola con gli ultimi maya

Parcheggiata sbilenca su un lato della piazza di San Cristóbal c’è una vecchia auto americana adattata a furgone. Trasporta fiori, e fiori sono anche quelli che la ruggine strappa alla vernice azzurro pallido della carrozzeria. Non ha targa e al suo posto ostenta un cartello sul quale mani incerte hanno scritto quella che forse è la frase manifesto del Chiapas, la più sentita e anche la più disattesa: “Vive y deja vivir”, vivi e lascia vivere. Da queste parti hanno lottato duramente per affermarla e nonostante la naturale ospitalità un po’ di diffidenza appena mascherata dalla cortesia è pienamente giustificata. Avvicinarsi al Chiapas significa prima di tutto spendere la moneta desueta del rispetto. Al mercato di San Cristóbal de las Casas i turisti si affollano numerosi attirati dall’etnografia di un popolo che vuole continuare a vivere delle proprie tradizioni e dai colori sgargianti dei tessuti. Ma se è difficile strappare un sorriso lo è ancora di più comunicare e non solo per questioni di lingua anche se il maya che si parla qui – il dialetto Tzotzil – sembra più il cicaleccio degli uccelli della foresta. È troppa la distanza che separa un paio di Nike da uno huipil, eppure una possibilità esiste perché a volte a tavola il miracolo si compie e dove non arriva la parola riesce il palato e la convivialità. La cucina del Chiapas è diversa da quella di qualsiasi altra zona del Messico. È uno strano miscuglio tra tradizioni indigene e influenze spagnole e ricorda da vicino il modo con cui gli indios hanno riadattato la religione cattolica a i loro riti ancestrali. I piatti a base di manzo, di maiale o di pollo vengono preparati con erbe aromatiche e condimenti particolari e può capitarvi di domandarvi stupiti su cosa le vostre papille gustative si siano immobilizzate e di desiderare che la cosa non finisca mai. Il Tasajo ad esempio è carne di manzo tagliata a fettine sottili marinata in una salsa di achiote, il Pollo en mole è accompagnato da una salsa di peperoncini, spezie e cioccolato parente stretto di quel Mole poblano che è la bandiera culinaria della zona di Oxaca, il Puerco en pipián è carne di maiale in salsa di semi di zucca. Assaggiare i formaggi di Ocosingo con un bicchiere di Tascalate, una bevanda fatta di mais tritato e tostato, cioccolato, zucchero, cannella e achiote, è una di quelle esperienze che merita un viaggio; diffusissimo è anche il Pozol a base di mais con zucchero o cioccolato. A San Juan Chamula, un piccolo centro a pochi chilometri da San Cristóbal, i Maya non sono mai andati via anzi qui c’è la più grande concentrazione di nativi di tutto il Messico. Qui il Carnevale segue le date del calendario maya e nelle chiese cattoliche non ci sono panche ma pavimenti coperti di paglia e aghi di pino perché il fedele accende candele e si prostra come se al posto del Redentore avesse davanti il dio Chac. Nei loro riti, che dell’ortodossia cattolica non ricordano nulla, i Chamula bevono il Posh una miscela alcolica a base di canna da zucchero. La vicina Chiapa de Corzo vanta, oltre ai Tamal, il Cochinito horneado, un maialino al forno condito con una salsa a base di peperoni e peperoncini. Più a sud, a Comitán de Domínguez, dove è possibile visitare luoghi archeologici poco noti come Chinkultic e Tenam Puente, le bevande tradizionali sono il Comiteco un tipo di Pulque preparato con maguey e zucchero di canna, e l’Agua de tzilacayote, il succo ricavato da un particolare tipo di zucca con l’aggiunta di zucchero. A tavola ci si può deliziare con la Butifarra, una salsiccia speziata, e diverse varietà di Tamal dolci e salati: i più deliziosi sono a base di mais, fagioli e coriandolo oppure ripieni di foglie chipilín.

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La leggenda del Sumidero
Il canyon del Sumidero è una delle attrazioni più spettacolari del Chiapas: una stretta ferita di roccia con pareti a strapiombo alte fino a mille metri dove scorre sinuoso il Rio Grijalva. L’escursione in barca è un’esperienza unica. Le lance si avventurano nella gola con l’acqua a pochi centimetri dalle murate e mentre su in alto troneggiano guglie di arenaria e la foresta pluviale, in basso, fra aironi e pellicani, si muovono lente e inquietanti le sagome dei grandi coccodrilli. Tanta bellezza è stata però anche teatro di uno degli eventi più drammatici della storia del Chiapas. Nel 1530, o giù di lì, gli spagnoli spazzano via in una sanguinosa battaglia guerrieri armati solo del loro coraggio. Secondo la leggenda, persa ogni speranza, i resti di quel popolo si dirigono verso il Sumidero e si gettano in massa nel vuoto. Negli stessi anni i conquistatores edificano Chiapa e San Cristóbal. Poteva essere la fine per la libertà degli indios, ma come hanno dimostrato Marcos e gli zapatisti era solo l’inizio.

 

Cayo Coco e Cayo Guillermo. I giardini del re

Quando gli spagnoli presero definitivamente possesso di Cuba fra il 1513 e il 1514 chiamarono il complesso arcipelago che si stende tra la Baia di Buena Vista e quella di Jiguey, Jardines del Rey. Il re era Ferdinando il Cattolico, e su questo nulla da dire, ma perché chiamare delle isole giardini? Basta guardarle anche solo una volta per rendersi conto che non esisteva un appellativo più calzante di questo. La prima impressione che si ha è di essere capitati nel bel mezzo della Creazione, esattamente al giorno +5, prima cioè che comparissero il primo uomo e la prima donna. Lingue di sabbia bianchissima coperte dal verde squillante della vegetazione, mare trasparente dalle tonalità verde-azzurro, un numero incredibile di specie diverse di uccelli, pesci multicolore e coralli. Se questo non è il paradiso allora non si capisce dove potrebbe essere. Cayo Coco è un’isola abbastanza grande unita alla terraferma da una strada costruita sul mare: una linea sottile lunga 17 km che si perde nel più puro dei blu. Il litorale è molto vario e le calette di sabbia si alternano alle punte rocciose e alle scogliere aprendosi a volte in tortuosi estuari e lagune. Cayo Coco è un buon punto di partenza per esplorare l’arcipelago perché le isole sono collegate via terra ed è possibile immaginare diversi itinerari da percorrere a piedi o in macchina. Naturalmente è il mare l’attrazione principale e i fondali, protetti dalla barriera, sono fra i più belli in assoluto, imperdibili per gli amanti delle immersioni e dello snorkeling. Da visitare il Parco Naturale EI Baga, la Guira e la Cueva del Jabali. Cayo Guillermo è un’isola di appena 13 km quadrati ma offre scenari impareggiabili e lo spettacolo delle dune di Playa Pilar che qui raggiungono i 15 metri di altezza: le più alte di tutti i Caraibi. E poi questi sono i luoghi descritti da Hemingway. Obbligatorio, quando scende la sera, inebriarsi della luce morente sull’acqua in compagnia di un Daiquiri fatto a regola d’arte.

L’unica a cui Hemingway restò fedele
Oggi è malinconicamente adagiata nel campo da tennis di quello che una volta era il buen retiro di Ernest Hemingway a Cuba. Il luogo si chiama Finca Vigìa, nei pressi de L’Avana, lei si chiama Pilar e non è solo una barca, è l’alter ego del grande scrittore americano. Lui e Gregorio Fuentes, il suo marinaio, hanno passato sul Pilar forse i momenti più belli, quelli che in parte sono stati descritti nei romanzi più famosi ambientati a Cuba: Il vecchio e il mare, in parte Avere e non avere e soprattutto due episodi di Isole nella corrente. Ma Pilar ha fatto anche altro che scorrazzare in lungo e in largo nel Mar dei Caraibi in interminabili battute di pesca. È stata, sempre con Ernest al timone, nave da guerra allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e barca per il contrabbando d’armi in favore dei castristi, ma soprattutto è stata l’amante che perdona tutto e a volte la spalla su cui piangere. Sul Pilar Hemingway ha amato, sedotto, litigato, si è ubriacato, ferito; c’è stato con i suoi figli e le sue donne, ha assistito ai suoi successi e ai suoi fallimenti. In una parola è stata tutta la sua vita. Fa piacere sapere che il governo di Cuba abbia finalmente deciso di restaurarla e di rimetterla in mare. Purtroppo però è ancora lì, triste e inanimata come una grande balena spiaggiata.