Palau e dintorni. Il regno del vento
Fra Santa Teresa di Gallura e Porto Cervo la costa sarda sembra nata solo per prendersi gioco del senso di orientamento di chi va per mare. Calette, costoni, linee frastagliate, insenature ubriache: tutto concorre a fare in modo che ogni bussola impazzisca. Devi andare a nord? Allora prima scendi a sud. E come se questo non bastasse, al grande rave partecipano anche il gruppo di isole che chiudono il canale e che raccordano la Sardegna alla Corsica. Un delirio. Ma dopo un po’ ci si fa l’abitudine e presto o tardi si pensa che in fondo con questo mare ci si possa dare del tu, che di segreti da svelare abbia finito il campionario e che ormai si è suoi padroni incontrastati. È la cosa peggiore che si possa fare da queste parti, perché qui deve ancora entrare in scena l’attore principale, colui a cui si deve la forma contorta di queste rocce, le incredibili gradazioni di colore di queste acque e l’aspetto mutevole e bizzarro di queste nuvole: è lui, sua maestà il vento. Nella scala Beaufort assume diversi nomi, da calma a uragano passando per bava, brezza, burrasca, tempesta e fortunale, ma i nomi qui alle Bocche di Bonifacio contano poco perché basta un niente perché lui, il re, cambi improvvisamente aspetto. Si chiama effetto Venturi e può placarsi o rinforzare in un battito di ciglia; la sola cosa che si può fare è il gioco del ridosso, navigare cioè fra le isole scegliendo quella che ti ripara meglio: un piccolo specchio d’acqua dove il vento arriva attenuato mentre tutto intorno ribolle la schiuma. È quello che forse ha tentato di fare senza riuscirci Gabriel August Jugan, esperto capitano di fregata francese all’alba del 15 febbraio 1855. La nave era partita da Tolone il giorno prima diretta a Costantinopoli. Imbarcava circa 700 soldati e pezzi di artiglieria destinati al fronte di Crimea. La rotta prevedeva di scendere lungo la costa occidentale della Sardegna, entrare nel canale di Sicilia e proseguire verso l’Egeo. Alcuni di quegli uomini erano reduci da un naufragio che poche settimane prima aveva distrutto una goletta militare sugli scogli di Bonifacio. Rimpatriati, ora erano di nuovo in mare con la Sémillante all’appuntamento rimandato col destino. Il vento aumenta, il capitano decide di infilarsi nelle Bocche sperando in un ridosso inesistente. Il timone si rompe, la nave è in balia delle onde. Racconta il guardiano del faro di Capo Testa che nel bianco della spuma vede avanzare sbilenca la sagoma di una nave. Forse Jugan vuole tentare di arenarla sulla spiaggia di Reina Maggiore, ma è difficile governare con le sole vele e la nave sfila via verso nord inghiottita dalla nebbia. Un capraio di Lavezzi sente il frastuono assordante del fasciame che si frantuma sugli scogli. Ci vorranno giorni per recuperare le vittime e alcune non verranno mai trovate. Non ci saranno sopravvissuti. Si dice che nelle notti stellate chi dorme in barca nell’atollo interno di Lavezzi all’alba sente il canto degli uomini della Sémillante, ma forse è solo uno scherzo del vento e la suggestione di un luogo magico. Com’è del resto un po’ ovunque da queste parti, dove niente è ciò che sembra. È solo roccia o è davvero un animale preistorico pietrificato la scultura a Cala Capra di Capo dell’Orso? E la Valle della Luna a Capo Testa è di questa terra o un frammento di un altro pianeta? E come mai al centro dell’esedra della Tomba dei Giganti le analisi spettroscopiche registrano la presenza di un intenso campo magnetico? Forse è il caso di non farsi troppe domande e godere della della luce cangiante di Porto Faro con le sue calette di sabbia bianca di fronte alla Maddalena, inebriarsi della bellezza della spiaggia di Porto Pollo dove il vento tanto amato dai surfisti – questo è uno dei ritrovi internazionali della tribù della tavola – modella dune alte fino a 5 metri o perdersi in uno dei tanti locali e disco bar che punteggiano la costa fino alla Costa Smeralda. Difficile comunque vada trovare qualcosa di più vicino al paradiso.
Porto Rafael
Nel 1959 l’artista spagnolo Rafael Neville, conte di Berlanga, decide che niente ha più a che fare col suo senso estetico di una baia solitaria vicino a Punta Sardegna. È lì che vuole vivere. Nasce così da un sogno Porto Rafael. Il progetto prevede la costruzione di villette immerse nella macchia che utilizzano granito locale e forme architettoniche che ricordano Gaudì. Ben presto il villaggio si popola di artisti e personaggi della moda e della spettacolo. La Piazzetta, sulla spiaggia, d’estate è teatro di feste interminabili. Apre il Gatto Volpa e subito dopo l’Harry’s Bar di Mario Uscidda. La consacrazione arriva nel 1966 con un articolo dal titolo “The Summer people” su Harper’s Bazaar. Da allora Porto Rafael con il suo porticciolo, le sue boutique, la colonia di artisti e delle loro famiglie che passeggiano a piedi nudi e le feste raffinate non ha cessato di esercitare il suo incredibile e surreale fascino.
Pechino. Antichi fasti e incalzante modernità
È difficile trovare un altro luogo dove i contrasti siano così stridenti come a Pechino. Da una parte una civiltà con 5000 anni storia, dall’altra un paese la cui economia cresce ogni anno a un ritmo costante anche se oggi forse siamo lontani dai tassi a due cifre di un tempo. Fra questi due estremi c’è un governo e una politica che prima o poi dovranno imparare a dialogare con un mondo che non è più né quello della dinastia Ming né quello della Rivoluzione Culturale di Mao. La sfida della Cina di oggi è questa, intanto però qualcosa sta già lentamente cambiando e lo dimostrano paradossalmente i consumi ingenerati da un mercato che finora era solo export. Basta fare un giro dalle parti di Wangfujing, la lunga strada dello shopping a poca distanza da piazza Tiananmen, o nella zona di Sanlitun. Oltre a negozi che ormai non sfigurerebbero in nessuna via del lusso dell’Occidente colpisce la presenza sempre più consistente di ristoranti internazionali. E il tè comincia a perdere terreno nei confronti del vino che, da queste parti, è diventata ormai quasi una mania come dimostrano i numeri del Beijing Wine Expo. Insomma, mai come in questo caso si può affermare che le rivoluzioni più durature si fanno a tavola: dalle barricate alle barrique se ci si passa il gioco di parole. Capire Pechino oggi significa allora percepire le differenze, cogliere le contraddizioni. Sulla Città Proibita sono stati scritti fiumi di inchiostro, a cominciare dal Milione di Marco Polo, ma si farebbe fatica a conciliare la calma e la misura che si respira all’interno della cinta di mura con la frenesia di una metropoli che si agita appena poche centinaia di metri più in là. Forse il modo migliore di tastare il polso di Pechino è dirigersi verso la zona degli hutong, l’intrico di strade e vicoli della parte vecchia che si estende dalla Città Proibita ai laghi Shisha fino alle torri del Tamburo e delle Campane. Qui si capiscono molte cose della mentalità cinese e fra botteghe artigiane, locali, anziani giocatori di scacchi e bambini vocianti nei cortili si percepisce quanto la determinazione e la volontà di questo popolo gli hanno permesso di superare ogni difficoltà: dai mongoli di Gengis Khan alle cannoniere occidentali fino a un governo che cerca di mantenere la Cina sul binario della doppia velocità. È sintomatico che questo grande quartiere sia al crocevia di luoghi simbolo del passato e del presente. Una buona idea è quella di affittare una bicicletta e attraversarlo fino alla zona dei laghi per essere preparati, il giorno dopo, a proiettarsi nel futuro. Pechino infatti non è solo stile imperiale e razionalismo sino-sovietico e si rimarrebbe sorpresi senza preparazione di fronte alla nuova città di cristallo e acciaio dove i grattacieli svettano come immense sentinelle. Il Beijing Central Business District è quasi un paradigma ma è con l’anno delle Olimpiadi, il 2008, che Pechino ha pigiato decisamente sul pedale dell’acceleratore. Il nuovo Teatro dell’Opera, la nuova sede della televisione di stato CCTV, il Centro Acquatico Nazionale, l’aeroporto intercontinentale sono altrettante icone della Pechino di domani ma forse, per il suo valore simbolico, ce n’è una che è più icona delle altre. È lo stadio olimpico progettato dagli architetti svizzeri Herzog e de Meuron, The Bird’s Nest, il nido d’uccello: un’immensa griglia di elementi d’acciaio fittamente intrecciati ricoperta da due strati di materiale traslucido. Forse è proprio da lì che sorgerà la nuova Cina.
Il linguaggio dei mendun
Il siheyuan è lo stile architettonico tradizionale di Pechino e ormai lo si può ammirare solo negli hutong. Un edificio siheyuan è caratterizzato da una costruzione quadrata con corte interna sulla quale si affacciano le stanze della casa. La disposizione degli ambienti rispetta i dettami del Feng shui e normalmente prevede un giardino con piante, fiori e acquari. L’aspetto più singolare è rappresentato dai mendun, blocchi di pietra scolpita che fiancheggiano la porta d’ingresso di una casa. Hanno una funzione strutturale ma il loro interesse è dato dal fatto che costituiscono il biglietto da visita del proprietario. Ogni elemento ornamentale è infatti legato a una precisa simbologia. Le piante sono appannaggio dei letterati, gli animali dei funzionari, i tamburi dei militari. Esistono anche simboli astratti: l’unione di un pipistrello con uno strumento musicale rappresenta l’aspirazione alla felicità, una gazza che canta su un ramo di prugno la giovinezza, un vaso con spighe di grano, riso, orzo e alcune quaglie, la pace. Solo il leone non si poteva usare: il suo uso era riservato esclusivamente alla corte imperiale.